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Dopo più di un anno di restrizioni causate dalla pandemia di Covid-19, sono drasticamente cambiate le esigenze e le abitudini di acquisto dei consumatori.

A causa del confinamento forzato e dell’alone di incertezza che circonda il futuro, si è spinti verso il soddisfacimento solo dei bisogni immediati, tralasciando gli acquisti e gli investimenti in tutti quei settori incentrati sul lungo termine.

Di fronte al repentino sconvolgimento della quotidianità, in quanto commercianti è stato necessario munirsi di spirito d’adattamento e dimostrarsi pronti al cambiamento. Vediamo quindi insieme come fidelizzare la clientela nell’era post-covid.

Due tipologie di fidelizzazione del cliente

Chiusura fisica delle attività commerciali non deve significare immobilità e silenzio da parte degli esercenti: per rimanere a galla e continuare a prosperare in un periodo di recessione come quello attuale, è necessario reinventare il proprio business in base al nuovo quadro socio economico. Ora più che mai, è la fedeltà della clientela a determinare il superamento della crisi da parte di un’attività commerciale di piccola o media entità. Come ottenerla? “Semplicemente” soddisfacendo appieno il proprio cliente.

Esistono due diverse tipologie di fedeltà del cliente: la “customer loyalty” e la “brand loyalty”.

Nel primo caso, il cliente vira verso un brand per la necessità momentanea di un determinato prodotto, spinto da un prezzo più competitivo rispetto alla concorrenza. Nel secondo invece, il cliente sceglie il brand a prescindere dal prezzo, in quanto sicuro della sua qualità e della soddisfazione che trarrà da quell’acquisto. Si tratta quindi di una fedeltà basata sulla percezione positiva che il consumatore ha del marchio.

Nell’era post covid, la brand loyalty è senz’altro quella a cui aspirare e su cui puntare, per non dover ricorrere a una guerra al ribasso dei prezzi al fine di conquistare nuovi clienti.

Dopo la pandemia, i sondaggi hanno riscontrato quanto il consumatore tenda a orientarsi verso il rivenditore fisicamente più vicino, ma ciò non costituisce comunque una garanzia di fedeltà: per un cliente sempre più attento ai dettagli basta anche solo una piccola sfaccettatura percepita come negativa per cambiare punto vendita di riferimento. I prezzi, la selezione di prodotti offerta e il servizio clienti sono tutti fattori determinanti ai fini della fidelizzazione.

Tecniche per aumentare la fidelizzazione del cliente

Come abbiamo visto, in una situazione socio-economica di recessione e difficoltà, è senz’altro più saggio mirare al mantenimento della clientela attuale, piuttosto che tralasciarla per accaparrarsene di nuova. Ecco i passi da seguire per riuscire nell’intento.

Coltivare la relazione con i propri clienti tramite social, newsletter e messaggi farà percepire il brand come “attivo” e “propositivo”. Questo step viene reso possibile soltanto se in precedenza si aveva già avuto premura di raccogliere i dati della clientela e salvarli all’interno del proprio database, ovviamente nel pieno rispetto delle normative sulla privacy.

Implementare i propri canali digitali: in un momento in cui la vicinanza fisica viene a mancare, è necessario più che mai puntare sulla vicinanza virtuale. I clienti stanno apprezzando e si stanno abituando a servizi già preesistenti, oramai diventati indispensabili: e-commerce di qualsiasi natura, consegne a domicilio per la ristorazione, servizi di streaming e intrattenimento, siti per conferenze e riunioni online. Queste sono solo alcune delle realtà che stanno prosperando in una situazione di pandemia globale, proprio perché necessarie allo svolgimento della cosiddetta “nuova normalità”.

Venire incontro alle esigenze del cliente: un brand che nel momento di crisi propone periodicamente offerte e promozioni, così come metodi di pagamento flessibili, verrà visto positivamente dal cliente, che continuerà ad acquistare invogliato dalla “vicinanza” e “comprensione” che il marchio ha dimostrato di possedere.

Esprimere empatia verso il cliente: il trattamento che riserviamo al consumatore in una situazione del genere, determina come verremo percepiti in futuro. Da un anno a questa parte, ad avere la meglio sono stati i brand che hanno sin dal principio espresso apprezzamento, amore e sostegno nei confronti del cliente, per farlo sentire coccolato, capito e supportato. Un esempio sono gli istituti di credito che hanno congelato o ritardato i pagamenti, o i siti di viaggi e alloggi che hanno concesso sempre più frequentemente l’opzione di cancellazione gratuita.

-Di pari passo con l’espressione di gratitudine, viaggia anche la capacità di prendere iniziative e offrire esattamente ciò di cui il cliente ha bisogno, nell’esatto momento in cui ciò si verifica. Per fare questo è necessario migliorare costantemente le proprie skills di comunicazione ed empatia, e la formazione del personale a contatto diretto con il consumatore.

Avvalersi di pubblicità responsabile: i messaggi e le campagne pubblicitarie dovranno essere consoni al periodo storico evitando sensazionalismi ma esprimendo sensibilità e comprensione.

Responsabilità sociale: i sondaggi hanno dimostrato che il 64% dei consumatori opta per brand impegnati in cause socialmente utili, a discapito di altri senza questa prerogativa. In un momento di crisi generale in tutti gli aspetti della vita, inserirsi all’interno di almeno uno di questi apportando il proprio contributo innalzerà la percezione del cliente e di conseguenza anche la brand loyalty.

Studiare le buyer personas: ultima ma non per importanza, una tip dal sapore più tecnico rispetto alle altre. Essendo cambiate le abitudini di acquisto, potrebbero essersi designate diverse buyer personas all’interno del nostro target. Sappiamo a quale nello specifico ci vogliamo indirizzare? Se la risposta è no, è necessario ristudiare questo capitolo per poter offrire alla nostra clientela il miglior servizio possibile che, come già anticipato, corrisponde al massimo della lealtà a cui aspirare.

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Nonostante il sopravvento preso dai social network nell’ultimo decennio, non solo all’interno della quotidianità di una grande percentuale di popolazione, ma anche e soprattutto a livello di marketing, gli esperti ritengono tuttora saggio ed efficace per un’azienda affidarsi sia alle strategie di sponsorizzazione “classiche” che a quelle “smart” che coinvolgono il web.

Vediamo quindi le caratteristiche di entrambe le categorie e qualche indicazione per farle confluire in un mix vincente.

Cosa sono e come funzionano le sponsorizzazioni

Con sponsorizzazione si intende un investimento da parte di un’attività commerciale, a favore di eventi, manifestazioni, spettacoli o programmi, organizzati a livello locale o nazionale, al fine di inserire il proprio marchio in maniera visibile durante gli stessi e aumentarne la popolarità.

Al giorno d’oggi, la sponsorizzazione di eventi riscontra un ritorno economico più lento e meno proficuo a causa dell’avvento dei social, nonché del particolare momento storico e sociale in cui ci troviamo, ma queste motivazioni non dovrebbero costituire dei deterrenti per l’imprenditore che desideri accrescere la propria brand awareness.

Le manifestazioni “classiche”, infatti, presentano una lunga serie di vantaggi:

Aumentano la credibilità: associando una marca a un determinato evento, sia esso benefico o a scopo di lucro, si presenta l’azienda come “vicina”, attiva e calata nel proprio territorio.

Aumentano la popolarità: il consumatore viene costantemente esposto al brand, alla sua immagine e al suo logo prima, durante e dopo lo svolgimento dell’evento stesso. Basta pensare alla risonanza di una partita di calcio di serie A, dove gli sponsor godono di visibilità non solo durante l’incontro, ma anche durante interviste e approfondimenti precedenti e successivi.

Aumentano la copertura: grazie ai mezzi di comunicazione odierni, infatti, un evento è in grado di raggiungere molte più persone di quelle realmente presenti nel momento dello svolgimento.

Aumentano l’engagement: le interazioni con il proprio target subiscono un’impennata, in quanto il brand si mostra disponibile alla comunicazione face to face.

Generano lead: in ogni fase dell’evento è possibile trovare e accogliere nuovi potenziali clienti, magari non facenti parte del proprio target, ma interessati a ricevere maggiori informazioni e possibilmente a finalizzare un acquisto.

Le Sponsorizzazioni Social

Secondo recenti ricerche, il 97% delle piccole imprese utilizza i social network per attirare nuovi clienti, e il 63% dei consumatori, cercando aziende online, si è dimostrato propenso ad affidarsi a quelle con la presenza social più attiva e consolidata.

Le sponsorizzazioni smart costituiscono la nuova frontiera del marketing e vengono progettate per raggiungere in maniera mirata solo il target dell’azienda, tramite ADV personalizzate sui contenuti selezionati.

Grazie al budget preimpostato e definito, non si rischia di incappare in imprevisti o incomprensioni, al contrario: gli strumenti di monitoraggio presenti sulle varie piattaforme consentono di controllare le interazioni e raccogliere informazioni aggiuntive sul proprio target di consumatori.

Attualmente, si stima che il 68% della popolazione globale utilizzi dispositivi mobili per accedere a internet, motivo per cui un sito e le sue relative ADV, necessitano obbligatoriamente di un’interfaccia breve e intuitiva che si presti alla visualizzazione su smartphone.

Le sponsorizzazioni sui social media possono avvenire non solo tramite inserzioni pubblicitarie, ma anche tramite influencer marketing, ovvero partnership con figure specializzate in diversi settori (moda, fitness, benessere, videogaming), che rappresentano un vero e proprio punto di riferimento per i propri followers. Questo tipo di sponsorizzazione può essere di natura remunerata (cash sponsored) oppure no (non cash sponsored) qualora il content creator ricevesse soltanto campioni o sconti da parte dell’azienda, ma non un compenso monetario.

Identificandosi con l’influencer, il consumatore sarà propenso a identificarsi anche con i prodotti da lui proposti. Si tratta di una tipologia di pubblicità più indiretta e sottile, ma altamente efficace in quanto intensa e capace di far percepire all’utente famigliarità con lo sponsor, in questo caso l’influencer.

Al fronte di queste premesse, è obbligatorio dichiarare sempre la presenza di un’inserzione pubblicitaria anche quando effettuata sui social media, per scongiurare il rischio di pubblicità occulta.

Campagne social: stretegie per il successo

Ogni campagna pubblicitaria che si rispetti deve nascere con un obiettivo ben preciso e seguire un iter il più possibile rigoroso al fine di raggiungerlo. Anche nel caso dei social network, lo scopo delle campagne di marketing è quello di incrementare la brand awareness, l’engagement e la brand affinity.

Comunicare i valori del brand è il primo step per coinvolgere il proprio target, tenendo sempre a mente che la personalità, lo stile e la filosofia degli influencer che si recluteranno per farlo saranno rappresentativi del marchio nel bene e nel male: pertanto è estremamente importante scegliere figure il più possibile in linea con il messaggio che si vuole trasmettere.

L’interazione con gli utenti è anch’essa fondamentale per instaurare un rapporto di fiducia con la clientela, che così facendo si sentirà coccolata e invogliata a supportare il marchio: usare un linguaggio consono al contesto e renderlo colloquiale entro i limiti, aumenterà quel senso di famigliarità citato in precedenza. Per enfatizzare ancora di più la “vicinanza”, strumenti come video, stories e reel sono perfetti in quanto in grado di valorizzare la sfera emotiva e “umana” ancora meglio di una semplice fotografia.

Per offrire un’esperienza il più possibile personalizzata, è possibile sfruttare le funzioni domande e sondaggi: gli utenti amano essere coinvolti e non soltanto subire passivamente serie infinite di inserzioni pubblicitarie da parte di aziende e influencer.

E in caso di gaffe, che si fa? (Quasi) nulla è imperdonabile: l’importante è mostrarsi umili e disposti ad ammettere di aver sbagliato, ancora una volta a sottolineare la propria umanità e vicinanza con il cliente.

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Hai sentito spesso parlare di Brand Awareness, ma non ti è ancora ben chiaro che cosa significhi? Sei nel posto giusto! Il concetto di Brand Awareness è fondamentale per tutti coloro che desiderino far emergere il proprio marchio all’interno del mercato in maniera intelligente e proficua.

Vediamo quindi insieme di che cosa si tratta e come valorizzarla al meglio.

Definizione di Brand Awareness

Con il termine “Brand Awareness” si indica il grado di notorietà del marchio agli occhi del pubblico, in particolare di quello “target”, capace di ricordare il brand senza bisogno di uno stimolo spontaneo o indotto. Si tratta pertanto di un concetto astratto e intangibile, esistente soltanto nella mente dei consumatori: per valutare la popolarità di una marca, infatti, ci si basa prevalentemente sulla capacità degli utenti di riconoscerne il logo, l’immagine e la categoria merceologica.

La Brand Awareness si suddivide in Unaided, quando è spontanea, e Aided quando è sollecitata; l’insieme di queste due dà vita alla Global Brand Awareness. Nel primo caso, il consumatore ricorderà il nome e le caratteristiche di un brand non appena introdotto un discorso a esso correlato, mentre nel secondo avrà bisogno di un imput esterno come una domanda, un esempio, una foto o un ricordo sollecitato da parte dell’interlocutore.

Gli indicatori di Brand Awareness: la Piramide di Aaker

Per valutare in maniera affidabile la percentuale di Brand Awareness, l’economista statunitense David Allen Aaker ideò quello che attualmente viene considerato lo strumento principale nello studio della materia: la cosiddetta Piramide di Aaker. Secondo lo studioso, un brand viene definito come “un insieme di attività o passività collegate a un segno distintivo, che si aggiungono o sottraggono al valore generato da un prodotto o servizio”.

Suddivisa in quattro livelli in base al grado di memorizzazione da parte del cliente, la piramide classifica i dati raccolti tramite ricerche di mercato e tracking study.

Al quarto livello, quello più basso, troviamo la definizione di Unaware of a Brand: quando il consumatore non ha mai visto né sentito nominare il marchio.

Lo step successivo è il Brand Recognition: a questo punto, il cliente è in grado di riconoscere il marchio se esposto a indizi e solleciti.

Il secondo livello è costituito dal Brand Recall: il richiamo alla mente dell’utente avviene ormai in maniera spontanea.

In vetta alla piramide c’è il livello Top Of Mind, occupato dalla prima marca citata da un consumatore in relazione a una data categoria di prodotti. La cosiddetta TOM Awareness corrisponde alla fidelizzazione totale da parte del cliente ed è la forma di notorietà a cui ogni azienda ambiziosa aspira a giungere: strettamente correlata al valore di una marca, è il grado di popolarità più vicino all’intenzione di acquisto. Anche se il prodotto non è mai stato provato in precedenza, infatti, la semplice conoscenza del nome infonde un senso di famigliarità con la marca, che può risultare sufficiente a sceglierla a discapito dei competitor.

Ogni campagna di marketing che si rispetti, ha come obiettivo primario l’aumento della Brand Awareness finalizzato all’inserimento della marca all’interno del Consideration Set dei consumatori, ovvero l’insieme di prodotti e/o brand che vengono presi in considerazione quando insorge nel cliente la necessità di acquisto di una determinata tipologia di beni.

Una notorietà forte viene raggiunta quando il consumatore è a conoscenza non sono del nome, ma anche del logo, del packaging e dei vari prodotti offerti dal brand. L’esempio lampante di una brand awareness indistruttibile è rappresentato da Coca Cola, famosa per il suo iconico logo, per la classica bottiglietta in vetro, nonché per essere la bevanda scelta da Babbo Natale.

Un altro brand che può vantare di aver raggiunto lo stesso grado di popolarità è Nutella: quando si pensa a una crema di nocciole spalmabile, è inconfutabilmente il primo e forse l’unico prodotto a venire alla mente del cliente.

Come aumentare la Brand Awareness

Dopo aver citato due colossi non solo leader nel loro settore, ma detentori del più alto livello di brand awareness a livello mondiale, torniamo con i piedi per terra e vediamo come aumentare in maniera ottimale la popolarità del nostro marchio.

La strategia principale è (ovviamente) puntare su pubblicità di ogni tipo, dagli spot televisivi e radiofonici, ai cartelloni, ai volantini, ai banner e ai camion vela.

Un altro esempio molto proficuo è l’utilizzo del Product Placement, ovvero l’inserimento di loghi, marchi e prodotti all’interno di programmi tv di ogni genere, per instillare nella mente del consumatore quella sensazione di famigliarità citata in precedenza.

Una menzione speciale va ai testimonial e alle sponsorizzazioni tramite influencer digitali: nell’ultimo decennio, questa strategia di marketing ha preso piede sempre più fino a diventare una delle più importati e redditizie sfruttate dalle aziende. Con l’utilizzo spasmodico dei social network da parte della stragrande maggioranza della popolazione, ricevere costantemente input su prodotti e marchi da parte di celebrities e influencer, serve ad alimentare il Consideration Set degli utenti e consumatori. Per approfondire questa tematica, leggi il nostro articolo dedicato.

Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, la vendita non è il traguardo finale di una campagna di marketing: si tratta in realtà dello step intermedio. Post vendita, infatti, è fortemente raccomandato inviare email di follow up con codici sconto e promozioni esclusive, oltre a invitare il cliente a iscriversi alla propria newsletter. Installare e radicare questo meccanismo è ciò che realmente conta al fine di incrementare la brand awareness e affermarsi sul mercato di competenza.

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Nella quotidianità, siamo regolarmente testimoni inconsapevoli di una miriade di fenomeni di mercato ai quali non prestiamo attenzione ma che vengono accuratamente studiati da esperti del settore dalla nascita e durante tutta la loro evoluzione. Quante volte facendo la spesa, abbiamo notato la presenza di prodotti “equivalenti” brandizzati dal supermercato stesso? Questo fenomeno, nato negli anni ’70, viene definito Private Labelling.

Scopriamo insieme qualcosa di più a riguardo di questo meccanismo di branding.

Cos’è il Private Labelling

Con il termine “Private Labelling”, sinonimo di “marca commerciale” o “marchio privato”, si intende un marchio sviluppato da un dettagliante o da un grossista, e non più da un produttore. Si tratta di beni di consumo estremamente simili a quelli già presenti sul mercato della GDO e commercializzati dai colossi del settore.

Generalmente, la qualità dei prodotti Private Label è molto simile a quella delle proposte dei grandi marchi: a parità di caratteristiche, a differire è soprattutto il prezzo, più competitivo in quanto le catene che decidono di inserire prodotti a marchio commerciale non hanno l’impellente necessità di investire in campagne di marketing dedicate.

Ma come si ottiene una linea Private Label?

Spesso, chi offre un marchio privato si affida agli stessi produttori dei grandi marchi, la cui capacità produttiva va in eccesso: tutto il residuo viene venduto ai distributori interessati come “prodotti bianchi”, ai quali verrà apposto il marchio solo successivamente.

Evoluzione del Private Labelling

L’iniziativa del Private Labelling vede le sue origini nell’America degli anni ’70, quando i distributori si resero conto che il consumatore, specialmente in situazioni di crisi, era ben disposto a sostituire i beni di uso comune con alternative il cui prezzo e qualità fossero leggermente inferiori.

I prodotti a marchio commerciale nacquero quindi con la caratteristica intrinseca di una qualità più bassa, di pari passo con il prezzo, che consentisse all’acquirente di risparmiare in attesa di tempi migliori.

Il fenomeno ha infatti mostrato una crescita esponenziale durante i periodi di recessione economica, in particolar modo nelle decadi scorse, quando ancora non si trattava di una realtà ben consolidata nel consumo quotidiano occidentale.

Dopo l’iniziale focus sul risparmio, è subentrato ben presto un nuovo fattore all’interno dell’equazione: la qualità, spesso più importante del prezzo stesso, e per la quale il consumatore è disposto a pagare addirittura un premium price (di cui abbiamo parlato in questo articolo).

Gli obiettivi del Private Labelling

Se in principio i Private Label avevano lo scopo di orientare il cliente verso un prodotto con un margine di guadagno più elevato, al giorno d’oggi servono a fidelizzarlo verso il proprio punto vendita: le grandi catene distributive, negli ultimi anni, hanno infatti cambiato approccio investendo nella realizzazione di campagne pubblicitarie ad hoc per promuovere la propria linea di prodotti a marchio privato, la cui qualità non ha più nulla da invidiare a quella dei grandi marchi nazionali.

Ogni tipologia di marca commerciale ha un obiettivo specifico: se ci guardiamo attorno, noteremo sugli scaffali come i distributori tendano ad apporre il proprio marchio su prodotti dalle caratteristiche specifiche, come “gluten free”, “vegan”, “per bambini”, ecc.

Questo porta a un progressivo miglioramento della store image agli occhi del consumatore, che lo troverà sempre più rifornito, con una scelta ampia, variegata e attenta alle esigenze di tutti.

Al giorno d’oggi, i Private Label arrivano a costituire quasi il 30% delle vendite di alcuni distributori, a dimostrazione di quanto questo fenomeno si sia affermato ed evoluto nel corso di pochi decenni.

Diventando “produttori” dei beni da loro stessi commercializzati, i dettaglianti acquisiscono via via maggior indipendenza dai produttori industriali, oltre ad aumentare anche il potere contrattuale nei loro confronti.

La percezione del Consumatore del Private Label

Per lungo tempo, il consumatore medio ha percepito i Private Label come prodotti di bassa qualità, rivolti a chi accettasse di scendere a compromessi pur di risparmiare sulla spesa quotidiana.

Oggi invece la situazione si è ribaltata: basti pensare che 7 consumatori su 10 li ritengono spesso più validi rispetto alle proposte delle marche nazionali.

Tuttavia, quando un cliente entra per la prima volta in un nuovo punto vendita, non si indirizzerà immediatamente sulla sua marca commerciale, ma avrà bisogno di essere rassicurato dalla presenza sugli scaffali dei grandi brand leader. Solo dopo aver sviluppato la store loyalty, l’acquirente sarà ben disposto a improntare la propria spesa sui prodotti Private Label.

A scatola chiusa, infatti, è logico che deciderà di acquistare un prodotto a marchio nazionale per la sua fama già consolidata.

Accogliere la fusione tra prezzo accessibile e buona qualità, offerta oggigiorno dalla maggioranza dei Private Label, non è semplice per la mente del consumatore, che di default è abituata a concepire il mercato tramite due parametri specifici: il costo e la qualità direttamente proporzionali tra loro.

Questa è una delle motivazioni per la quale in Italia il Private Label è ancora poco diffuso rispetto alla media Europea e Occidentale, unita alla reticenza di diverse aziende al conformarsi a questo tipo di strategia di vendita.

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Entrare nella famigerata Grande Distribuzione Organizzata è un sogno comune per tanti piccoli imprenditori e produttori. Ma quali sono i passi da seguire per farlo con consapevolezza e soprattutto con buone possibilità di successo?

Se trent’anni fa il mercato accoglieva calorosamente ogni nuovo arrivato, al giorno d’oggi il panorama si presenta saturo in molti ambiti, dove la concorrenza è diventata a dir poco spietata. Nell’immaginario comune, l’unica via per posizionarsi all’interno di un determinato settore sembra quella di proporre beni di discreta qualità a un prezzo migliore rispetto a quelli già affermati.

Beh, non è esattamente così… Scopriamo perchè!

Scegliere il buyer giusto per un prodotto

Il primissimo step che vi troverete ad affrontare sarà la scelta del cosiddetto buyer, ossia la compagnia che potenzialmente inizierà a distribuire il vostro prodotto nella GDO (di cui abbiamo già analizzato le caratteristiche in questo articolo).

Ogni attore nel campo della GDO si attiene a politiche di mercato differenti tra loro: alcuni, per esempio, puntano sulla qualità della merce mantenendo prezzi leggermente sopra la media, mentre altri fanno del “risparmio” la loro filosofia guida.

È per questo estremamente importante documentarsi a dovere, onde evitare di sprecare tempo, energie e credibilità proponendo il prodotto a un buyer agli antipodi delle proprie reali necessità.

Dopo aver analizzato le varie opzioni, è necessario prepararsi per la presentazione al buyer: una struttura aziendale chiara e pulita, a prescindere dalla longevità e dalla portata dell’attività imprenditoriale, è fondamentale per dare un’idea di affidabilità e organizzazione al compratore. I grandi colossi della GDO, infatti, amano le novità ma odiano l’instabilità e l’inattendibilità dei fornitori.

Entrare nel mercato della Grande Distribuzione Organizzata significa maggior visibilità e di conseguenza maggiore domanda: siamo sicuri di poter sopperire alla richiesta che questo enorme passo comporta?

Se la risposta è affermativa, subito dopo essersi accertati che l’azienda abbia fondamenta organizzative salde, è il momento di occuparsi del materiale informativo con il quale si farà conoscere al buyer la propria identità e il proprio prodotto.

Oltre alle classiche brochures, è bene preparare vere e proprie presentazioni interattive, complete ed esaurienti ma senza fronzoli, in cui vengano messe in evidenza una brand identity coerente e originale e una strategia di marketing accurata e funzionale.

Chiedersi: che valore ha davvero il mio prodotto?

Dopo aver pensato al background, è finalmente giunto il momento di spostare il focus sul nocciolo della questione: il prodotto che volete far debuttare in GDO.

A fine 2020, è ormai altamente probabile che di qualunque cosa vi occupiate, sul mercato siano già presenti diverse alternative che vadano a coprire le necessità dei clienti finali. Per quanto questa premessa possa suonare scoraggiante, ciò non significa che sia una partita persa in partenza.

È quasi scontato credere che l’unico modo per avere una chance di veder acquistata la propria merce a discapito di quella dei brand leader nel settore, sia mantenere prezzi ancora più bassi della concorrenza. Per una piccola realtà imprenditoriale, vorrebbe quasi sicuramente dire scavarsi la fossa con le proprie mani!

Per avere successo, soprattutto in un panorama così sanguinoso come quello della Grande Distribuzione Organizzata, serve un’ottima conoscenza del prodotto che si sta proponendo: se non si tratta di un qualcosa di innovativo e originale che il mercato non ha mai visto prima, è necessario sviluppare un’offerta diversa da quelle già esistenti, portando la totale attenzione verso una o più peculiarità del proprio articolo, sulle quali i competitor non possono contare (o che non hanno evidenziato). Considerate un particolare tipo di lavorazione, una provenienza regionale o provinciale specifica, un singolo ingrediente non ancora mainstream o una tradizione aziendale lunga generazioni.

Puntare sulla strategia del premium price

Se di prodotti di discreta qualità a prezzo abbordabile sono pieni gli scaffali, non sarà forse più sensato provare ad affermarsi in un ambito meno affollato?

Abbiamo già visto come l’abbattimento dei prezzi non sia una scelta fattibile, soprattutto se i competitor sono multinazionali leader sul mercato ormai da decenni. Sappiamo anche che con tutta probabilità, gli articoli provenienti da realtà di piccola e media grandezza, potranno contare su una qualità superiore rispetto a quelli realizzati industrialmente con decine di migliaia di referenze.

Non resta quindi che puntare sulla strategia diametralmente opposta: quella del premium price. Ciò significa presentare il proprio prodotto a un prezzo premium, superiore alla media, in modo che si posizioni in una nicchia di mercato esclusiva e meno gremita.

Oltre a garantire all’imprenditore una maggior sostenibilità sul lungo termine, verrà percepita dal cliente finale come merce di lusso: nella mente di un acquirente medio un prodotto che si discosti abbastanza dalla tendenza di mercato in termini di prezzo, deve per forza avere un valore aggiunto per il quale si è disposti a pagare la cifra richiesta. In questo caso, non è la qualità in sé a fare la differenza, ma il costo al quale viene proposta.

Il mercato di nicchia viene spesso visto sotto un’ottica negativa dagli imprenditori che credono erroneamente che un prezzo alto renda meno attraente la merce, non essendo accessibile a tutti. In realtà, è proprio questo il punto di forza delle nicchie: il non essere, per definizione, accessibili a chiunque… essere speciali.

Debuttare in GDO scegliendo questa via, spesso non solo è saggio, ma permette di avere ottimi margini di guadagno e di farsi conoscere a livello regionale, nazionale o internazionale come un’azienda premium, verso la quale i giusti clienti finali saranno irresistibilmente attratti.

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In televisione, sui giornali, sul web: si sente spesso parlare di Grande Distribuzione, ma sappiamo realmente cosa significa questo termine? Si tratta di una realtà ben consolidata all’interno delle nostre vite, che costituisce una vera e propria colonna portante per le dinamiche commerciali moderne. Scopriamone insieme le caratteristiche, l’evoluzione e le strategie per riuscire a farne parte.

GDO e GDS: di cosa si tratta e come si suddividono

La Grande Distribuzione Organizzata, per definizione, consiste in un’associazione di esercenti indipendenti che decidono di esprimersi sotto una medesima insegna, come fanno ad esempio Esselunga, Coop, Carrefour e Lidl.

Tale organizzazione si occupa della vendita di beni di largo consumo rivolta ai clienti privati, occupando aree commerciali superiori ai 200 m².

In base ai parametri di dimensione (superficie di vendita in m²), ampiezza (numero di prodotti che possono essere contenuti), profondità (numero di referenze per prodotto) i punti vendita della GDO assumono nomenclature diverse. Nonostante le definizioni universali che possiamo trovare all’interno del glossario della GDO, è importante sottolineare che ogni attore nel campo denomina i propri store basandosi su linee guida interne, spesso differenti dalla concorrenza.

La suddivisione più comune comprende:

-Supermercati: negozi dalla superficie superiore ai 400m².

Ipermercati: si espandono su oltre 2500m².

-Discount: solitamente di dimensione variabile tra i 200 e i 1000m², a differenza dei due precedenti possono contenere solo una selezione limitata sia di prodotti che di referenze.

-Cash&Carry: un sistema di vendita all’ingrosso rivolto esclusivamente ai commercianti.

-Libero servizio: si tratta delle classiche attività di vicinato, impostate come veri e propri supermercati ma con dimensioni, ampiezza e profondità estremamente limitate.

Se GDO è un acronimo a cui ormai abbiamo fatto l’abitudine, GDS potrebbe mandarci in confusione. La Grande Distribuzione Specializzata mantiene le stesse caratteristiche della GDO, concentrandosi però su un unico settore merceologico, e affermandosi come leader nello stesso. Alcuni esempi sono l’elettronica, il fai da te, i prodotti biologici e gli accessori per la casa: tra i marchi più conosciuti troviamo infatti Naturasì, Acqua&Sapone, Euronics e Bricoman.

Per scoprire più nel dettaglio quali sono le ulteriori classificazioni dei punti vendita della GDO, consulta il nostro articolo di approfondimento.

Primi passi per debuttare in GDO: buyer, target e buyer personas

Per entrare nel mondo della GDO, non solo è necessaria una buona conoscenza del prodotto che offriamo, ma anche delle figure cardine di questo mondo, prima fra tutte quella del buyer.

Il buyer professionale è colui che si incarica dell’acquisto di beni o servizi da parte dei produttori o fornitori. È con lui che ci troveremo ad avere a che fare quando saremo pronti a compiere il grande salto verso la GDO.

Se ancora brancoliamo nel buio senza avere un’idea di chi sia il nostro cliente ideale, è perché ancora non abbiamo acquisito alcune nozioni fondamentali.

Il gruppo di consumatori al quale ci rivolgiamo viene denominato “target”… ma come individuarlo?

Molto banalmente, tramite ricerche e analisi di mercato. Più nello specifico, utilizzando la tecnica della segmentazione, ovvero la suddivisione del panorama secondo uno o più parametri da noi determinati. Ogni gruppo di potenziali clienti avrà caratteristiche comuni, ed altre differenti: sarà tramite lo studio dei loro comportamenti che saremo in grado di risalire al target specifico al quale ci vogliamo rivolgere con il nostro prodotto, le cui peculiarità andranno a soddisfare perfettamente la richiesta del consumatore. Questa particolare operazione viene detta targeting.

Esiste infine uno strumento ancora più preciso, che consente alle aziende di creare le proprie campagne di comunicazione e marketing ad hoc: la creazione delle buyer personas.

Nel gergo commerciale, ci si riferisce a un utente singolo virtuale, progettato in base alle ricerche sopracitate, che rispecchi esattamente il profilo del cliente a cui ci si rivolge.

Per approfondire l’argomento buyer leggi questo articolo.

Come entrare in GDO con il giusto posizionamento del prodotto

Quando si decide di “lanciarsi” nel mondo della GDO, sorge spontaneo nella mente dell’imprenditore un grande interrogativo: come fare? Come muoversi in una realtà così satura e sanguinosa?

Se siamo sicuri di poter fronteggiare l’esponenziale aumento di domanda che la GDO comporta, il primo masso da compiere è la scelta del giusto compratore: sarà uno spreco di tempo ed energia, provare a inserire il brand all’interno di una catena distributiva con caratteristiche e filosofia agli antipodi delle nostre.

Dopo una scrematura iniziale, è il momento di presentarsi ai potenziali acquirenti: per farlo in maniera corretta e professionale, dobbiamo accertarci di aver realizzato del materiale informativo riguardante la nostra azienda, il nostro prodotto e il nostro concept, che sia chiaro, conciso ed esaustivo. Dobbiamo essere in grado di dare l’idea di azienda salda, ben organizzata ed efficiente. I grandi attori della GDO, infatti, accolgono con piacere le novità, ma non hanno tempo da perdere con fornitori inaffidabili o inesperti.

Se fino a trent’anni fa, il mercato dava spazio a chiunque decidesse di inserirvisi, oggi giorno pullula letteralmente di ogni genere di bene e servizio. Ne evinciamo quindi che per poterne far parte in maniera proficua, dobbiamo far affidamento a strategie diverse da quelle attuate da coloro che già lo popolano da decenni.

Proporre un prodotto di buona qualità a un prezzo concorrenziale, in un oceano di alternative dalle stesse identiche caratteristiche, corrisponde a un suicidio per il piccolo imprenditore che con molta probabilità non riuscirà a tenere testa alle grandi marche nazionali.

Al contrario, mirare all’inserimento in un mercato di nicchia, per definizione più piccolo e meno gremito, consente di piazzare il proprio brand a un prezzo decisamente più elevato e che consenta quindi all’imprenditore di sostenere con più serenità i costi di una produzione aumentata.

Questa strategia, detta premium price, mette in luce le peculiarità che distinguono il nostro prodotto dalla massa (per esempio, una provenienza geografica particolare, un ingrediente ancora poco conosciuto o un processo di lavorazione unico), e si rivolge a una clientela esclusiva, disposta a pagare un prezzo importante per un vero e proprio bene di lusso.

Scopri di più nel nostro articolo di approfondimento sul product placement.

Nicchia di mercato: come individuarla e come inserirsi

La nicchia viene definita come un segmento del mercato di piccole dimensioni, nel quale la competitività è ancora bassa: si tratta di gruppo di consumatori con esigenze e richieste ben specifiche, che possono essere soddisfatte solo offrendo un prodotto particolare, studiato ad hoc.

Spesso, inserirsi in un mercato di nicchia si rivela una scelta vincente per incrementare le proprie vendite e affermarsi agli occhi un pubblico esigente ma ben disposto a pagare un premium price per il prodotto richiesto.

Per prima cosa, è bene definire il proprio target e poi procedere con ricerche in rete per verificare che la propria proposta non sia già stata sviluppata da altri. Se il nostro obiettivo è offrire la soluzione a un problema non ancora risolto, siamo sulla buona strada.

Strumenti come Google Keyworld Tool sono preziosi al fine di sondare il terreno: se a una parola chiave corrisponde un alto volume di ricerca significa che il nostro prodotto o l’esigenza alla quale vogliamo sopperire vengono ricercate dal pubblico e con tutta probabilità, è già stato proposto da tante aziende prima di noi. In questo caso possiamo affinare ancora di più la nicchia, individuando esattamente i punti non ancora sviluppati, su cui poter incentrare la nostra strategia di successo.

Un altro passo importante, è quello di studiare la concorrenza leggendo feedback e recensioni di acquirenti: sapremo così quali lacune presentano gli attori già affermati sul mercato.

Sono diversi i settori di nicchia che stanno vivendo un momento di espansione e di forte ricerca da parte degli utenti: tra questi oggi troviamo l’artigianato made in Italy (sia in Italia che all’estero), i prodotti biologici, vegani ed ecosostenibili, il food delivery e il planning delle attività (impegni, obiettivi, alimentazione e sport).

Il segreto per avere successo sta nello studio accurato del panorama e nella progettazione di un’offerta nuova che soddisfi il proprio target, per quanto piccolo, al 100% delle richieste.

Fidelizzare il cliente: la storia del private labelling

Nella lunga storia della Grande Distribuzione, un importante fenomeno che ne cambiò per sempre i connotati, fu l’introduzione del private labelling.

Siamo in America agli inizi degli anni ’70: è allora che i distributori si rendono conto della necessità del cliente di scendere a compromessi sulla qualità del prodotto, pur di spendere meno e riuscire ad arrivare a fine mese. Specialmente in periodi di crisi e recessione economica, infatti, si era disposti a sacrificare la buona qualità della merce, per un qualcosa di meno pregiato ma anche più accessibile. È con queste caratteristiche che nascono i prodotti a marchio privato, simili in tutto e per tutto a quelli dei grandi marchi nazionali, ma dal prezzo decisamente concorrenziale.

Se inizialmente era questa la filosofia alla base del private labelling, al giorno d’oggi viene utilizzata invece dagli attori della GDO come strategia per fidelizzare il cliente: sempre più catene infatti, hanno capito che per migliorare la propria store image è necessario investire nella creazione di gamme di prodotti a marchio privato, ognuna delle quali con un obiettivo e un target ben definito.

Dai prodotti biologici, vegani, per la cura della casa, degli animali o dei bambini, ormai il marchio privato non ha più nulla da invidiare al marchio nazionale, nemmeno in termini di qualità.

C’è da dire che secondo le statistiche, il cliente rimane comunque rassicurato dalla presenza sugli scaffali dei grandi colossi nazionali, soprattutto durante il primo approccio con un nuovo punto vendita. Dopo l’esperienza iniziale, però, ben 7 consumatori su 10 affermano di preferire il rapporto qualità-prezzo offerto dal private label, rispetto alle marche più conosciute.

Nonostante queste premesse più che positive, nel nostro Paese il fenomeno è ancora poco diffuso se paragonato al resto d’Europa, a causa della reticenza ad accettare che la qualità possa andare di pari passo con un prezzo accessibile a tutti.

Per saperne di più, leggi il nostro articolo sul private labelling.

Il mondo del Retail: la vendita al dettaglio nell’immaginario comune

In contrapposizione allo scenario della Grande Distribuzione, troviamo il concetto di retail, la cui definizione specifica è “vendita al dettaglio di beni o servizi, indirizzata a un utente singolo”. Nonostante ciò, nel gergo comune, si è ormai andata consolidando l’associazione tra la parola retail e l’immagine di un piccolo commerciante estraneo al mondo della grande distribuzione.

Il retail può essere suddiviso in tre grandi settori a seconda del bene commercializzato: il primo è quello dei prodotti alimentari, il secondo quello dei beni di consumo (come abbigliamento, calzature, oggetti per la cura della persona) e il terzo viene rappresentato dall’area dei beni di consumo durevole, ovvero soggetti a usura ma utilizzabili per un lasso di tempo più prolungato rispetto ai primi (ne fanno parte, per esempio, il settore dell’elettronica e quello delle automobili).

Il retail, non solo si esprime tramite i canonici punti vendita (denominati attività in sede fissa) che costellano i centri cittadini e le aree commerciali, ma si esprime anche tramite temporary shops, vending machines e internet retail.

Per approfondire, leggi il nostro articolo sul retail, la sua storia e le sue caratteristiche.

Out of stock: gli errori da non commettere per un’attività di successo

Gestire un punto vendita di successo comporta grandi responsabilità, conoscenza del prodotto e del mercato, inoltre richiede una mente acuta, organizzata e predisposta al problem solving.

Uno dei nemici giurati di tutte le attività commerciali è il tanto temuto fenomeno dell’”out of stock”, ovvero l’esaurimento improvviso delle scorte di un dato prodotto.

Se in veste di consumatori potremmo quasi non farci caso, come titolari di un punto vendita dovremmo davvero averne paura: trovare uno scaffale vuoto significa, nella migliore delle ipotesi, ritardare un acquisto… Mentre nella peggiore, regalare un cliente alla concorrenza.

I dati parlano chiaro: di fronte a una rottura di stock, il 10% degli italiani opta per un prodotto di un altro brand, mentre ben il 25% annulla direttamente la propria spesa.

Cosa fare quindi? Non dobbiamo certo restare inermi di fronte a un prodotto esaurito: è vero, le circostanze esterne che possono determinare lo stock out sono numerose e spesso variabili, ma una volta studiate e analizzate, saremo in grado di evitare che si verifichino e anzi, sfruttarle a nostro favore.

Conoscere l’andamento del mercato nel quale ci siamo inseriti è imprescindibile al fine di realizzare previsioni corrette della domanda. Stilarle in maniera approssimativa o errata, prima o poi porterà inevitabilmente a un out of stock: un aumento improvviso della domanda, ad esempio, è una delle primissime cause di questo fenomeno, di pari passo con gli errori di inventario.

Gestire il proprio magazzino in maniera precisa e rigorosa è uno dei segreti per un’attività commerciale di successo. Essere a conoscenza di tutte le disponibilità ci sarà di enorme aiuto al fine di evitare l’esaurimento di un prodotto, ordinando nuove scorte non appena raggiunto il reorder point.

L’intelligenza artificiale è uno strumento importantissimo del quale servirci per mantenere sotto controllo il nostro magazzino: esistono decine di software in grado di organizzare e schedare la merce in entrata e in uscita, nonché il buffer stock, ovvero le scorte su cui fare affidamento in caso di picchi improvvisi della domanda.

Nonostante questi accorgimenti, rimane sempre scoperta una piccola percentuale di rischio dovuta da fattori esterni e incontrollabili quali ritardi dei fornitori, dei trasporti o errori umani.

Scopri di più nell’articolo dedicato.

La rottura di stock come strategia per incrementare le vendite

Nel peggiore dei casi, non essendo riusciti a evitare un episodio di stock out, ci sono comunque alcuni accorgimenti e mosse strategiche alle quali ricorrere per mantenere intatta l’immagine aziendale: prima fra tutte, la richiesta di approvvigionamento immediato.

Essere chiari sulle motivazioni dello stock out, inoltre, fa in modo che non venga minata la fiducia che il consumatore ha in noi. Sarà più facile accettare la rottura di stock di un prodotto soggetto a stagionalità, a tiratura limitata, o addirittura fuori produzione, rispetto a quella di un prodotto da catalogo, non disponibile a causa di una mal gestione dello store.

È anche opportuno non eliminare totalmente gli spazi adibiti a una determinata merce, in quanto tale mossa darà l’idea di esclusione della stessa dal nostro assortimento.

Nel caso degli shop online, è bene spostare tutto ciò che è esaurito a fondo pagina, in modo che durante la navigazione ci siano più probabilità di trovare qualcos’altro che attiri l’attenzione dell’utente prima di giungervi. Inoltre, aggiungere prodotti similari tra i suggerimenti, farà in modo che al fronte di una rottura di stock, si decida comunque di continuare l’esperienza di shopping sul nostro sito invece di virare verso la concorrenza.

Per ovviare a uno stock out che sappiamo essere di breve durata (per esempio, quando già ci è stata comunicata dal fornitore la data della consegna della merce), un piccolo trucchetto è quello di mantenere il prodotto disponibile sull’ecommerce, semplicemente aumentando le tempistiche di preparazione e spedizione. In questo modo il cliente non dovrà affrontare nessun intoppo durante l’acquisto, che porterà a termine con la consapevolezza di dover attendere qualche giorno in più prima di riceverlo.

Ma la rottura di stock… è sempre accidentale?

La risposta è NO.

Ultimamente viene utilizzata sempre più spesso come una vera e propria strategia per creare una sensazione di necessità e urgenza nella mente del cliente, che verrà irresistibilmente attratto da un prodotto esclusivo e molto difficile da reperire.

Nonostante si sia rivelata molto efficace, è bene utilizzare questo stratagemma con saggezza: ottimo se applicato al settore dell’elettronica e all’abbigliamento, diventa invece deleterio se usato su beni di prima necessità. Di fronte alla rottura di stock di un prodotto alimentare, per esempio, il cliente non potrà far altro che recarsi presso un altro rivenditore, impossibilitato ad attendere un nostro eventuale rifornimento.

Leggi nel nostro articolo tutti i segreti di questa strategia!

Retail apocalypse: il collasso dei piccoli punti vendita

Il mondo dell’internet retail, dalla sua nascita negli anni ’90 a oggi, ha comportato un cambio drastico nei comportamenti e nelle preferenze degli utenti e, come diretta conseguenza, anche nell’andamento del mercato in sé e per sé.

Per un’attività commerciale è ormai fondamentale poter contare su una piattaforma online ben strutturata ed efficiente, proprio perché le nuove generazioni prediligono acquistare su internet risparmiando tempo e la fatica dello spostamento verso il negozio fisico. Inoltre, negli ultimi due decenni, sono cambiate anche le preferenze di investimento degli acquirenti: se prima si era ben disposti a impiegare i guadagni nell’acquisto di beni di consumo, ora si preferisce utilizzarli per concedersi vere e proprie esperienze, come viaggi, cene e attività di intrattenimento.

Questo mutamento della clientela, unito a periodi di crisi economica (di cui stiamo avendo un chiaro esempio anche ora, nell’epoca del Covid-19), ha portato alla luce un fenomeno denominato “retail apocalypse”, ovvero la chiusura “a domino” di decine di migliaia di attività commerciali.

Iniziata nel 2010, ma entrata nel gergo comune solo nel 2017, l’apocalisse della vendita al dettaglio si è verificata soprattutto negli USA, scatenandosi sui punti vendita facenti parte di grandi catene distributive. In Italia, si teme, al contrario, specialmente per i piccoli commercianti. Qual è il futuro del nostro Paese? Scoprilo nel nostro approfondimento dedicato alla retail apocalypse.

Il futuro è oggi: l’evoluzione dei pagamenti e il sopravvento delle transazioni digitali

Mantenendoci in tema di prospettive future, un altro aspetto del mondo del commercio al dettaglio in continua evoluzione, è quello dei pagamenti.

Con la presenza di internet ormai totalitaria all’interno delle nostre vite, anche il classico pagamento “cash” sta ormai perdendo terreno.

I vantaggi rappresentati dai pagamenti elettronici sono infatti innegabili: oltre alla completa tracciabilità delle transazioni, pagare con carta di credito o debito, smartphone e piattaforme come Paypal, Satispay e Sisalpay è estremamente rapido, funzionale e sicuro anche per gli esercenti, che risparmiano così il tempo una volta impiegato nella gestione del contante, e scongiurano il rischio di assalti e rapine.

Se nella teoria appare tutto semplice e lineare, nella pratica per quanto riguarda il nostro Paese, l’affermazione dei pagamenti digitali ha incontrato diverse difficoltà lungo il cammino.

Complici sono stati lo scetticismo da parte della popolazione di età avanzata nei confronti dei pagamenti elettronici, una percentuale di unbanked (ovvero cittadini sprovvisti di conto corrente bancario o postale) da non sottovalutare e soprattutto la mancanza di un unico, grande sistema digitale in cui possano confluire tutti quelli esistenti.

Ciò che si è verificato è stata la necessità degli esercenti di selezionare i circuiti ai quali appoggiarsi, lasciandone inevitabilmente fuori altri: gli alti tassi di interesse per transazione e i canoni di gestione, infatti, hanno spesso penalizzato e messo in ginocchio le piccole attività commerciali, che di conseguenza si sono dimostrate restie nell’accettazione di micro pagamenti elettronici.

Per incentivare l’abbandono del denaro contante, lo Stato ha messo in atto negli ultimi anni diverse iniziative, tra le quali l’abbassamento della soglia massima per transazioni liquide, ora ferma a 2000€ ma con previsioni di ulteriore calo, e l’introduzione del cosiddetto Cashback di Stato, ovvero un rimborso del 10% su tutte le spese effettuate tramite l’utilizzo di carte di pagamento.

Per scoprire di più sul futuro dei pagamenti nella mondo del retail e della grande distribuzione, dai un’occhiata al nostro articolo dedicato.

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In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale permea la nostra vita, imbatterci in imprevisti facilmente evitabili impiegando tutti gli strumenti al meglio non è più una fatalità, ma sintomo di superficialità nella gestione delle nostre attività lavorative. È il caso del fenomeno dell’out of stock, che abbiamo già analizzato a fondo in questo articolo.

C’è chi però, soprattutto ultimamente, ha tentato di sfruttare a proprio favore un episodio spiacevole come quello della rottura di stock, convertendolo in una vera strategia per incrementare le vendite.

Avrà funzionato? Scopriamolo insieme.

In cosa consiste la strategia dello “stock out”

Quella dell’out of stock è una strategia di marketing rischiosa e che, se non adeguatamente messa in atto, rischia di trasformarsi in un batter d’occhio in una pericolosa arma a doppio taglio.

Rivelatasi funzionante soprattutto nell’ambito dei beni di largo consumo quali fast fashion ed elettronica, è importante snocciolarne tutte le caratteristiche e i relativi pro e contro, prima di tirarsi inavvertitamente la zappa sui piedi.

Il concetto principale su cui verte è, infatti, la creazione di “hype” attorno a un determinato bene: un mix di eccitazione, urgenza ed esclusività, innestato nella mente del consumatore di fronte a un prodotto tanto bramato quanto impossibile da avere nell’immediato perché già acquistato da altri X clienti più veloci di lui. Se ne evince che è quindi insensato provare ad attuare questa strategia su beni di prima necessità, o facilmente reperibili in altri punti vendita o eCommerce: sarà come dare in mano ai propri competitor la vendita che ci è appena sfuggita.

Sulle creazioni esclusive, invece, si è dimostrata vincente per spingere il cliente a desiderare un prodotto specifico e sottrarlo alla concorrenza.

Attuare questa tecnica di marketing, spesso significa contrassegnare come esaurita una determinata merce per studiarne l’interesse da parte del consumatore, le sue reazioni e la sua predisposizione ad appuntarsi a mailing list e notifiche per mantenersi informato su futuri aggiornamenti e rifornimenti della stessa.

Cosa non fare nel momento in cui si verifica uno stock out

Nonostante spesso venga deliberatamente utilizzata come tecnica, a volte la rottura di stock ci coglie ancora impreparati. È qui che si dimostrano le abilità di un bravo imprenditore, in grado di destreggiarsi di fronte agli imprevisti e ribaltare la situazione a proprio favore.

Ci sono alcuni errori imperdonabili da non commettere assolutamente nel momento in cui un prodotto risulti esaurito:

Rimuovere completamente il prodotto: che si tratti di un negozio fisico o di un sito web, rimuovere lo spazio o la pagina un tempo destinati ad esso è altamente controproducente. Così facendo si lascia intendere al cliente che non si è più interessati a distribuire la merce in questione o che non esiste nessuna possibilità di un suo rientro in stock.

Non essere chiari riguardo la disponibilità di un prodotto: non sapere, o non essere in grado di comunicare in maniera chiara e semplice le informazioni che si hanno riguardanti la disponibilità della merce, può scoraggiare il cliente dal volerla acquistare ora o in futuro.

Redirigere alla home quando si clicca su un prodotto esaurito: nel caso degli shop online, è opportuno suggerire schede di prodotti similari, le cui caratteristiche possano soddisfare le esigenze del cliente. Stessa cosa vale per l’esperienza negli shop fisici: al fronte di una referenza out of stock, è importante sapere consigliare una valida alternativa che si avvicini il più possibile alle richieste originarie.

Cose intelligenti da fare nel momento di uno stock out

Dopo essere venuti a conoscenza di un non pianificato episodio di out of stock, esistono alcune mosse che possiamo attuare per migliorare la situazione, e soprattutto la percezione di essa agli occhi del consumatore.

Identificare la causa dell’imprevisto e fornire al cliente informazioni dettagliate sulla disponibilità del prodotto. Ci sono diversi motivi, infatti, che possono determinare lo stock out: aver esaurito un prodotto in maniera temporanea (1-4 settimane) per un picco improvviso della domanda, è differente dal non averlo in quanto uscito di produzione.

È anche necessario distinguere una rottura di stock causata dalla stagionalità del prodotto, da una a tempo indefinito causata da problemi tecnici, logistici o commerciali.

Inviare un messaggio o una mail per avvisare del ritorno in stock della merce, non appena si riceve il rifornimento. Una corretta e puntuale comunicazione fidelizza il cliente e lo invoglia a portare a termine quell’acquisto lasciato in sospeso a causa della rottura di stock.

-Un trucchetto utile per gli online shop, inoltre, è quello di aumentare il tempo di preparazione e invio per la merce esaurita solo per brevi lassi di tempo: in questo modo si evita di scoraggiare il cliente di fronte a un out of stock, e si guadagna la vendita pur non avendo disponibilità immediata in magazzino.

-Un altro accorgimento è quello di posizionare la referenza esaurita in fondo alla pagina di navigazione, proponendo prima di essa altri prodotti che possano catturare l’interesse del cliente prima di imbattersi nell’out of stock.

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Con il mondo del commercio al dettaglio in continua evoluzione, non c’è certo da stupirsi che diversi fenomeni a carattere sociologico si siano manifestati di pari passo con i cambiamenti del mercato. Tra questi ricade il cosiddetto “Retail Apocalypse”, ovvero la crisi dei negozi fisici, iniziata alla fine della prima decade degli anni 2000.

Facciamone insieme un’analisi più approfondita.

In cosa consiste il “Retail Apocalypse”

L’espressione, diventata di uso comune nel 2017, fa riferimento alle numerose chiusure di store fisici verificatesi dal 2010 in avanti, in concomitanza con una crisi economica globale e un cambiamento drastico nel comportamento e nelle preferenze dei consumatori.

Nel mondo occidentale, sono gli USA ad aver risentito per primi del fenomeno: basti pensare che tra il 2010 e il 2013, l’afflusso di potenziali clienti è diminuito del 50%, in quanto sempre più persone prediligono gli acquisti online rispetto ai negozi tradizionali.

Nell’anno 2019, il web ha infatti canalizzato ben il 14% delle entrate totali del Paese, e secondo diverse stime questa cifra è destinata a raggiungere il 17,5% entro la fine del 2021.

Dal 2010 a oggi, negli USA sono state abbassate le serrande di più di 12000 negozi soprattutto facenti parte di grandi catene di distribuzione, con un picco in negativo avvenuto nel 2018.

Quali sono le cause del “Retail Apocalypse”?

A scatenare l’”apocalisse” è stata una commistione di fattori, primo fra questi il cambiamento generazionale e di conseguenza la tipologia di clientela.

La giovane generazione Z, quella successiva ai Millennials, preferisce di gran lunga l’ecommerce a discapito del punto vendita fisico, per comodità, rapidità, vastità di scelta e assortimento.

L’esperienza in negozio, infatti, viene spesso percepita come un “dovere”, quindi vissuta malvolentieri e talvolta evitata, così come il tempo impiegato tra viaggio di andata e ritorno e commissione in sé, viene considerato come “sprecato”.

Oltre a essere mutate le modalità di acquisto, si è riscontrato anche un vero e proprio cambiamento nelle preferenze di investimento: se fino a vent’anni fa un cittadino di ceto medio utilizzava le proprie risorse per l’acquisto di beni di largo consumo (come abbigliamento, accessori, elettrodomestici) per accrescere il proprio status all’interno della società, oggi la tendenza è quella di investire in attività quali viaggi, ristoranti e vita sociale.

Ovviamente, non tutte le “colpe” sono da imputare al consumatore. Spesso, una cattiva gestione del punto vendita, con frequenti episodi di rottura di stock, può risultare determinante per il fallimento dell’attività.

Certo, per mantenersi al passo con i tempi è necessario per ogni azienda che si rispetti appoggiarsi a un online store perfettamente funzionante, e la formula che unisce varietà, rapidità, flessibilità e ottima cura dell’esperienza di pre e post vendita, non sempre riesce bene. Ad avere la peggio sono i piccoli negozi, spazzati via dai grandi colossi del low cost e dell’industria fast fashion, che hanno dovuto fare i conti anche con un aumento degli affitti e dell’espansione dei centri commerciali, in cui confluisce molto più facilmente la clientela.

L’inevitabile bancarotta è stato il destino per decine di migliaia di punti vendita, e con la pandemia causata dal COVID-19, ci si aspetta un cospicuo aumento delle dichiarazioni di fallimento.

Il “Retail Apocalypse” avrà conseguenze anche in Italia?

La domanda sorge spontanea, analizzate le cause principali: dovremo scontrarci anche noi con il fenomeno?

La risposta è NI.

In Italia non si verificherà lo stesso identico scenario, ma un qualcosa di simile, complici le differenze strutturali sia a livello sociale che commerciale che ci distinguono dagli USA.

A differenza di quanto avvenuto oltreoceano dove a chiudere sono stati soprattutto i punti vendita facenti parte di grandi catene distributive, nel Bel Paese a essere colpite sono soprattutto le piccole attività. Tra queste, il settore dell’abbigliamento in maniera particolarmente forte. I centri commerciali, invece, sopravvivono e anzi migliorano: fortunatamente, non ci troviamo a far fronte a un eccesso di offerta come avviene in America, e ciò fa sì che l’italiano medio sia ancora affezionato ai servizi e alle esperienze offerte dai grandi centri per lo shopping che costellano il Paese.

Anche la GDO, comunque, ha risentito della crisi generale, passando da 28300 negozi nel 2013, a 25500 nel 2019. Gli unici a essersi mantenuti costanti nella loro progressiva espansione sono stati i discount.

Con la pandemia da COVID-19 a incrementare e intensificare i fattori di rischio per l’economia italiana e non solo, la situazione post 2020 non è di certo rosea. Complice il cambiamento forzato delle modalità di lavoro e spostamento e l’imposizione della cosiddetta “nuova normalità”, solo durante gli ultimi 12 mesi sono stati persi 380 000 posti di lavoro, e si attende un picco in negativo per chiusure e crisi di piccole e medie imprese.

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L’affermazione della Grande Distribuzione Organizzata ha segnato un punto di svolta decisivo nello stile di vita dei cittadini. Negli ultimi decenni, infatti, abbiamo assistito a un aumento esponenziale di supermercati e ipermercati, a discapito dei piccoli negozi di quartiere.

Per trattare un argomento vasto come quello della GDO è necessario soffermarsi su diversi aspetti, partendo da struttura e organizzazione di questo sistema complesso che ha rivoluzionato per sempre il settore del commercio al dettaglio. Dopo aver compreso le differenza tra GDO e GDS vediamo insieme in quali format si declinano i punti vendita della GDO.

GDO in breve

Con “Grande Distribuzione Organizzata” si intende la vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non, su superfici generalmente superiori ai 200 m², da parte di attività commerciali gestite da un’unica azienda centrale.

Le cosiddette “catene commerciali” sono costituite infatti da punti vendita che si identificano sotto la medesima insegna, che spesso si approvvigionano dai medesimi fornitori e le cui strategie di vendita, politiche aziendali e campagne pubblicitarie vengono gestite dal medesimo marchio proprietario.

L’incomparabile vantaggio di questa forma di vendita al dettaglio è dettato dal forte potere contrattuale nei confronti dei grossisti grazie alle grandi quantità di acquisto, che consentono di rivendere il prodotto a un prezzo finale estremamente concorrenziale.

La diffusione della GDO in Occidente

La nascita dei grandi magazzini avvenne nella prima metà del ‘900 in America, la culla della società capitalista, che vide evolvere e prosperare un tipo di attività commerciale completamente diverso da quello al quale si era abituati in precedenza.

È a New York nel 1930, infatti, che sorge il primo supermercato su una superficie di ben 560m2. Ci vorrà un altro decennio prima che venga aperto il primo in Europa, a Londra, e quasi 20 anni per l’arrivo in Italia di questa nuova frontiera del commercio al dettaglio.

A causa dell’arretratezza del sistema commerciale e dell’ancora grande importanza delle piccole attività di vicinato, è solo nel 1957 che il primo supermercato inaugura a Milano sotto l’insegna Esselunga.

I format della Grande Distribuzione Organizzata

La GDO comprende diverse tipologie di esercizi commerciali, suddivisi a seconda delle caratteristiche di dimensione (m²), ampiezza (numero di prodotti che possono essere contenuti) e profondità (numero di referenze per prodotto).

La classificazione viene eseguita tenendo conto esclusivamente della superficie di vendita, non contando quindi i magazzini, gli spazi adibiti al personale e ai parcheggi.

È necessario specificare che, nonostante le definizioni tecniche prese normalmente come riferimento, ogni catena commerciale tende a suddividere i punti vendita a seconda dei propri criteri, anche a causa dell’aumento avvenuto negli ultimi anni di servizi e prodotti offerti, che ha portato alla luce la necessità di ulteriori suddivisioni tra i vari esercizi.

La classificazione originaria, comunque, prevede:

-ipermercati: sono i punti vendita che si estendono su superfici superiori ai 2500 m². All’interno di questo format, vengono fatte ulteriori distinzioni tra i superstore (tra i 1500 e i 2500 m²), gli iperstore (tra i 2500 e i 4000 m²), e i megastore (superiori a 10 000 m²), in quanto non risulta conveniente apportare lo stesso tipo di gestione a un punto vendita di 2000 m² rispetto a uno di 15 000 m². Per quanto numeri di questo tipo possano sembrare colossali, gli iperstore in Italia restano comunque di “modeste” dimensioni se paragonati ad alcuni giganti esteri che arrivano a toccare i 40 000 m² di superficie.

-supermercati: si estendono tra i 400 e i 2500 m² e nascono soprattutto nelle periferie cittadine; offrono un ampio assortimento di grocery e non, che resta comunque molto limitato rispetto a quello di un ipermercato. Si tratta della categoria più diffusa e frequentata dal consumatore medio italiano soprattutto negli anni ’90, poi soppiantata dall’arrivo dei discount che con i loro prezzi competitivi hanno attirato le attenzioni delle masse. Attualmente, si registra comunque una discreta ripresa per i supermercati, dopo aver raggiunto una sorta di equilibrio con i concorrenti discount. Con questo termine, si intendono punti vendita di dimensioni generalmente comprese tra i 200 e 1000 m², che offrono un assortimento spesso variabile e che punta su prodotti generici a prezzi più bassi rispetto a quelli degli altri punti vendita. Al giorno d’oggi, tuttavia, è sempre più frequente l’inserimento di grandi marchi o linee selezionate anche all’interno dei punti vendita a discount.

-libero servizio: sono punti vendita di piccole dimensioni, tra i 100 e 400 m² che costellano i piccoli centri cittadini e che, nonostante la drastica diminuzione subita negli ultimi anni, costituiscono ancora una realtà solida nel nostro Paese e in Est Europa.

-cash&carry: così vengono definiti gli esercizi commerciali dedicati alla vendita all’ingrosso per professionisti.

Con l’evoluzione continua del mercato e dei servizi, non è da escludersi un cambiamento delle classificazioni e soprattutto, l’inserimento nel tempo di nuovissimi format di pari passo con lo stile di vita del consumatore.

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La Grande Distribuzione Organizzata, dalla sua affermazione negli anni ’60 a oggi, ha subito un considerevole numero di cambiamenti in tutti gli aspetti in cui si declina.

Primo fra tutti, l’ambito dei pagamenti: se fino a trent’anni fa, l’unico metodo esistente era il denaro contante, in sole tre decadi la situazione è stata completamente stravolta dall’arrivo dei sistemi di pagamento digitali.

Ma qual è il futuro verso il quale ci stiamo dirigendo? Scopriamolo in questo articolo.

L’evoluzione dei pagamenti nella GDO

Nel 2015, in Italia, 175 miliardi di Euro sono stati fatturati tramite mezzi di pagamento elettronici.
Bizzarro pensare che solo trent’anni prima il contante era l’unica forma universalmente accettata e le carte di credito/debito venivano utilizzate solamente da stranieri, turisti e dagli Italiani appartenenti a un’alta classe sociale.

In principio, la compravendita tramite contanti fondava le proprie radici su un concetto di fiducia tra il fornitore e il distributore, o tra il dettagliante e il cliente: spesso infatti, i pagamenti venivano “segnati” e poi riscossi solo periodicamente.

È negli anni ’90 che prende forma un rinnovamento delle forme di pagamento, grazie anche alla diffusione degli e-commerce che richiedono, nella quasi totalità dei casi, una carta idonea per poter effettuare gli ordini. Proprio in questo momento, i grandi attori della GDO (per sapere come sono classificati i punti vendita della GDO leggete questo articolo) iniziano a maturare il desiderio e la necessità di soppiantare la moneta con i sistemi di pagamento digitali, molto più funzionali e sicuri, e che sradicano completamente il problema della gestione e delle rapine. Per incentivare l’utilizzo dei canali elettronici, vengono quindi create le prime carte di credito a nome di grandi colossi come Conad, Esselunga e Coop.

Nel 2010 viene migliorata l’esperienza di acquisto tramite carta con l’introduzione del contactless, il sistema che permette di pagare senza inserire la carta nel terminale POS, ma semplicemente avvicinandola. Questa innovativa formula prende piede fino a raggiungere gli 80 miliardi di € di fatturato nel 2018.

Al giorno d’oggi, oltre alle carte di debito (Bancomat) ormai possedute dalla stragrande maggioranza della popolazione, sono entrati a far parte della nostra quotidianità anche i pagamenti tramite smartphone e smartwatch, ulteriormente ottimizzati da funzioni quali riconoscimento facciale, di impronte digitali o dell’iride, più affidabili e sicure rispetto a tutti i metodi di protezioni esistenti finora.

Il cosiddetto cash, nonostante l’odierna diffusione dei sistemi digitali, rimane comunque il metodo più utilizzato nel nostro Paese. Sempre secondo il bilancio dell’anno 2015, infatti, l’80% delle transazioni sono state effettuate tramite denaro contante: un dato preoccupante, che posiziona l’Italia tra i primi posti in Europa per utilizzo di liquidi discostandosi dalla rapida evoluzione che i pagamenti hanno subito recentemente.

Quali vantaggi presentano i pagamenti digitali?

Oltre a consentire il tracciamento delle operazioni, i pagamenti elettronici offrono una serie di vantaggi per gli utenti e per gli esercenti che li riscuotono.

Praticità e sicurezza sono gli innegabili punti di forza: potersi spostare ovunque e accedere alla totalità dei servizi (trasporti, acquisti, carburante, utenze, soggiorni e piccole spese) avendo con sé solo una carta o il proprio smartphone rende la quotidianità semplice e priva di imprevisti. Senza tralasciare la facilità con la quale tutte le entrate e le uscite vengono riportate in automatico nella proprio account di internet banking, Paypal, e-wallet o similari.

Per le attività, la digitalizzazione dei pagamenti equivale a un minor tempo speso nella gestione e nel versamento dei liquidi, più competitività per i servizi offerti al cliente, maggior sicurezza sul posto di lavoro, minor margine di errore e incongruenze nel fatturato.

Per incentivare questo sistema, nel 2014 entra in vigore l’imposizione del terminale POS in tutti gli esercizi commerciali, nel 2016 l’obbligo di accettazione anche dei micropagamenti, e nel 2020 l’abbassamento del tetto per le operazioni in contanti: ora è possibile effettuare transazioni liquide solo fino a 2000€. A gennaio 2022, la soglia si abbasserà ulteriormente e si fermerà a 1000€.

Queste misure hanno presto dato i loro frutti: se nel 2018, il 18% degli italiani dichiarava di utilizzare esclusivamente contanti per le proprie spese, nel 2019 la percentuale è diminuita al 15%.

L’ultimissima novità per l’incentivo del pagamento elettronico a discapito di quello in contanti, è l’introduzione a dicembre 2020 del Cashback di Stato: tramite l’app dei servizi pubblici, è possibile infatti ricevere il 10% di Cashback sui propri acquisti realizzati nei punti vendita tramite pagamento digitale. Una tematica che ha fatto ampiamente discutere e che ha spaccato a metà l’opinione pubblica, ma che rientra alla perfezione nel piano per l’eliminazione del denaro contante.

Le difficoltà nell’affermazione dei pagamenti digitali

Nonostante le premesse e i dati apparentemente positivi, la grossa difficoltà nell’affermazione definitiva dei pagamenti elettronici sta nella mancanza di un unico, grande sistema che li raggruppi tutti senza eccezioni.

Spesso infatti, gli esercenti si vedono costretti a scegliere tra l’installazione di due o più circuiti simili perché in competizione tra loro, privando il cliente di un prezioso servizio. Gli elevati costi di apertura del contratto, il canone annuo e le commissioni per singola operazione, poi, costituiscono un ulteriore ostacolo soprattutto per i piccoli commercianti. Basti pensare che le commissioni su carte di credito si aggirano tra l’1% e il 2,5%, con un picco del 5% per le carte American Express, spesso non accettate a causa di questa percentuale insostenibile.

Nel nostro Paese, è ancora abbastanza diffuso soprattutto tra le persone di età avanzata, un certo scetticismo nei confronti dei pagamenti elettronici, per una mancanza di fiducia verso un servizio così “nuovo” e “tecnologico”.

Inoltre, non sono da sottovalutare nemmeno i 15 milioni di unbanked, ovvero utenti che non possiedono nessun conto corrente e i cui pagamenti, quindi, non possono in alcun modo essere tracciati.

Per una vera ottimizzazione dei pagamenti, è necessario garantire benefici sia agli utenti che agli esercenti: ciò che manca è una rete di circuiti che vada a confluire in un unico software centrale, capace di accettarli tutti senza discriminazioni, in ogni tipo di attività commerciale.

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