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Potreste aver sentito parlare di tribal marketing ed essere stati catapultati con la mente a popolazioni indigene di terre incontaminate. Il concetto sul quale si fonda questa specifica strategia di marketing si discosta leggermente dall’idea di comunità che potrebbe esserci sorta di primo acchito. Vediamo quindi di cosa si tratta, come sfruttarla e qualche esempio pratico del suo impiego.

Definizione di marketing tribale

Michel Maffesoli fu il primo studioso a teorizzare il tribalismo nascente dalla post modernità: in un’era di globalizzazione mondiale, in cui tutto diventa accessibile, veloce e talvolta caotico, l’individuo ricerca intimità, legami veri e comunitari.

Su tali concetti si ergono le basi della strategia del marketing tribale, che mira a creare e sostenere le cosiddette “tribù di consumo”, i cui partecipanti nutrono una profonda affinità tra di loro e con il prodotto che si sta promuovendo.

All’inizio degli anni 2000 e a seguito dell’avvento dei social network, il sociologo Bernard Cova scrive il proprio libro intitolato “Il marketing tribale”, nel quale illustra le caratteristiche, lo svolgimento e l’applicazione di tale teoria, ampiamente sfruttata dalle multinazionali delle più svariate categorie merceologiche, e prettamente fondata sulle dinamiche social.

A differenza del marketing personalizzato, in voga negli anni ’80 e ’90, il marketing tribale non pone tanto l’attenzione sul rapporto azienda-consumatore, quanto principalmente su quello consumatore-consumatore. Le tribù infatti sono eterogenee, composte da utenti provenienti da zone geografiche, ceti sociali, contesti politici e religiosi ben differenti, ciò che li unisce è solo e soltanto la passione e l’interesse verso un dato prodotto, marchio o servizio.

Come fare marketing tribale

Avevamo già parlato in questo articolo della tecnica di green marketing, negli ultimi anni molto sfruttata dalle aziende non soltanto multinazionali ma anche locali, per aumentare la propria visibilità e la fidelizzazione del pubblico. Anche la strategia del tribal marketing può dare senza dubbio risultati sorprendenti per il proprio brand, ma è necessario seguire alcune linee guida al fine di applicarlo nel miglior modo possibile.

La prima cosa da fare è l’individuazione di tribù già esistenti, che potrebbero potenzialmente legarsi al marchio e iniziare a dimostrare un forte interesse nei suoi confronti, attirando l’attenzione di altrettanti utenti. Per farlo è necessario ricercare immagini, luoghi specifici, oggetti e parole provenienti dal gergo specifico della tribù.

Completato questo passaggio preliminare, si può passare al consolidamento dei legami dei membri, unendoli ancora di più e facendo sì che la loro passione per il prodotto proposto si espanda, creando un senso di appartenenza e di identificazione tra i membri.

Uno stato di coesione, calore e unità all’interno della tribù si ottiene anche e soprattutto fornendo ai componenti contenuti sempre nuovi e di qualità che loro stessi possano condividere con il prossimo e col mondo intero.

Da tale raggiungimento, l’azienda può finalmente iniziare a trarre attivamente vantaggio dalla tribù, estrapolandone le competenze, i suggerimenti e le esperienze al fine di metterle poi in pratica a livello commerciale. Gli stessi membri della comunità si fanno pertanto portatori di messaggi e divulgatori: il passaparola è uno strumento importantissimo tramite il quale i brand si espandono, accrescono la propria reputazione e attirano nuovi clienti.

Per far sì che gli utenti si facciano carico questa responsabilità il brand deve risultare estremamente coerente con i propri messaggi, le cause che supporta, e saper comunicare un’identità ben definita con la quale i consumatori possano identificarsi. Al giorno d’oggi, infatti, le persone sono in cerca di forme di aggregazione nuove, non legate ai tradizionali concetti di etnia, territorialità, politica o religione.

Il marketing tribale è lo strumento perfetto per la creazione di gruppi coesi, attivi e appassionati a un’unica tematica: il prodotto proposto dal marchio.

Esempi di marketing tribale

Con l’adozione del tribal marketing su larga scala, si sono venute a formare le cosiddette Brand Communities, ovvero quelle comunità online specializzate in un determinato prodotto o marchio, e che creano comunicazione diretta tra gli utenti.

Nelle Brand Communities, i partecipanti si scambiano consigli, esperienze, foto e recensioni e grazie a questa continua interazione l’azienda stessa può trarre nuovi spunti per prodotti, campagne e migliorie.

Un esempio lampante di queste comunità sono le pagine Instagram dedicate a degli specifici brand di abbigliamento internazionali: multinazionali come Zara ed H&M per esempio godono di tantissime pagine create dai propri supporters, in cui vengono pubblicati quotidianamente contenuti riguardanti le nuove collezioni ed eventuali offerte in corso.

Tali pagine vengono seguite con scrupolo dagli amministratori che condividono con i follower link diretti per l’acquisto e referenze dettagliate dei prodotti, favorendo l’espansione delle aziende grazie al loro senso di appartenenza alla community.

Alcuni esempi di marketing tribale nel panorama internazionale sono: Harley Davidson, GoPro, Starbucks ed Apple.

Il primo vero e proprio fenomeno di Marketing Tribale è da attribuirsi ad Harley Davidson: il motociclista si sente a tutti gli effetti parte di un gruppo ben definito e con determinate caratteristiche, diverso da tutti gli altri. Sono famosi i raduni ma anche i siti e le pagine dedicate ai fan del brand; il motto dell’Harleysta è All for Freedom, Freedom for All.

GoPro è stata la capostipite nell’ambito delle videocamere indossabili e coloro che vi sono fedeli sin dal principio si riconoscono come parte di una tribù, sostenendosi a vicenda sui social grazie a menzioni e condivisioni.

Starbucks è la catena di food & beverage più cool di tutto l’occidente: ogni grande città europea e nord americana vanta almeno un punto vendita del brand. Giovane, alla moda, dinamico, Starbucks è riuscito alla grande nell’impresa del tribal marketing, catturando l’attenzione delle più disparate tipologie di clientela, facendola convergere nei propri locali.

Ultimo esempio, ma non per importanza è di certo il colosso Apple. Nel mondo della tecnologia è ormai risaputo: gli utenti si classificano in base al brand da cui hanno deciso di acquistare il proprio telefono cellulare. In poche parole, si può far parte del team Ios oppure rimanere nell’oblio delle numerose altre marche di smartphone, senza riconoscersi con nessuna comunità a loro associata.

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Al giorno d’oggi, la sostenibilità non costituisce più soltanto un valore aggiunto all’azienda che la persegue, ma si sta convertendo nel focus di tantissime imprese che si avvalgono di pratiche di green marketing. L’attenzione nei confronti dell’ambiente e del pianeta in cui viviamo, infatti, costituisce un punto cardine attorno al quale gravitano le strategie di marketing delle imprese più lungimiranti, che ne traggono anche profitto dal punto di vista della brand image e della CSR. Scopriamo come e perché.

Cos’è il green marketing

Il green marketing, detto altrimenti anche environmental marketing o marketing sostenibile, è costituito da tutte quelle strategie attuate dall’azienda per migliorare la sostenibilità ambientale, tutelare l’ecosistema e proteggere la flora e la fauna spesso devastate a causa dell’impatto dell’uomo.

Negli ultimi decenni, fortunatamente, la consapevolezza collettiva rispetto all’immenso danno che l’attività umana continua a causare sul pianeta Terra è aumentata, e di conseguenza le tecniche di marketing si sono rinnovate e adeguate.

L’impegno a praticare green marketing si fonda sui concetti intersecati di restituzione e responsabilità: il primo si riferisce all’interruzione di tutte le pratiche nocive adottate in passato dall’azienda, iniziando piano piano il processo inverso. Questo ideale si applica specialmente a imprese longeve, che nelle decadi passate avevano investito su metodi di produzione, trasporto e imballaggio non sostenibili e deleteri per l’ambiente.

Il concetto di responsabilità, invece, fa riferimento in particolar modo alle startup e ai business appena nati, che possono cogliere la grande opportunità di allineare fin da subito i propri valori di etica, rispetto e sostenibilità con le azioni concrete di messa sul mercato.

Un ideale ben radicato è fondamentale quando si sceglie di avvalersi del green marketing: trasmettere coerenza, trasparenza e concretezza al proprio pubblico fa sì che il progetto venga accolto nel migliore dei modi, ispirando il target ad attuare esso stesso dei comportamenti e delle azioni migliorative nella vita di tutti i giorni.

Come fare green marketing in maniera concreta

Una volta definiti i propri ideali, quali sono le linee guida da seguire per fare green marketing? Le iniziative da poter mettere in atto singolarmente o, ancora meglio, massivamente, sono tante.

La sostenibilità, infatti, può essere legata al processo di realizzazione dei prodotti commercializzati, al beneficio che ne trarrà il cliente finale o all’organizzazione di progetti di beneficenza, tutela o riduzione dell’impatto ambientale.

Educare e trasmettere questi valori al proprio personale è un’altra scelta proficua per le aziende che, così facendo, radicano ancor di più la propria mission nel cuore dell’impresa, costituito da coloro che la rendono possibile e che a loro volta promulgheranno nella vita di tutti i giorni messaggi positivi e di sostenibilità.

Indire e sostenere progetti quali la riforestazione, la rimozione dei rifiuti dalle spiagge, la tutela degli habitat e delle specie in via d’estinzione, sono altre idee per le aziende desiderose di fare green marketing.

L’ultimo baluardo, che unisce il marketing sostenibile con il marketing sociale (di cui abbiamo già parlato in questo articolo), è il mettersi in moto come divulgatori del messaggio etico, fornendo informazioni, approfondimenti e favorendo un aumento della consapevolezza da parte del proprio target nei confronti della tematica eco friendly.

Quest’ultima pratica in particolar modo, ma anche quelle precedentemente citate, se non portata avanti con coerenza e trasparenza, può costituire una vera e propria arma a doppio taglio per l’azienda. Diffondere dati non accurati e informazioni solo parzialmente vere può costare caro non solo in termini di reputazione e credibilità, ma anche a livello monetario.

Non sono rari infatti gli esempi di grandi brand multati a causa di pubblicità ingannevoli riguardo la natura biodegradabile e riciclabile dei loro packaging e dello smaltimento responsabile dei loro rifiuti.

Questa pratica di finto ambientalismo viene denominata in gergo “greenwashing“.

Cos’è il greenwashing e quali rischi comporta

Come abbiamo visto, la sostenibilità ambientale non è soltanto una necessità concreta per salvaguardare il nostro pianeta ormai martoriato dalle azioni dell’uomo, ma anche una carta vincente che le aziende sfoderano per attirare consensi e dimostrarsi attente, impegnate e lungimiranti agli occhi del pubblico.

Ovviamente, anche in questo ambito non mancano coloro che per ottenere l’approvazione millantano l’impiego di tecniche ecosostenibili, la riduzione dell’utilizzo della plastica, minori emissioni di Co2, il rispetto delle condizioni dei lavoratori, quando la realtà dei fatti si è ben presto dimostrata lontanissima da tali affermazioni.

Il greenwashing è una pratica fuorviante che può arrivare a trasformarsi in reato condannando le aziende che se ne sono avvalse a pagare multe davvero salate. Oltre all’impatto monetario, l’ambientalismo di facciata, quando portato alla luce, comporta anche la gogna mediatica con conseguente perdita di reputazione e di vendite.

Alcuni esempi tutti italiani hanno riguardato diverse marche di acqua in bottiglia, colpevoli di aver spacciato i propri imballaggi come “ecofriendly” e “attenti all’ambiente” dichiarando cifre false riguardo al contenuto di effettiva plastica riciclata al loro interno.

Spostandoci a livello internazionale, proprio nel 2021 è emerso come il colosso del fast fashion H&M abbia falsificato ben il 96% dei rapporti riguardanti la propria linea di abbigliamento “Conscious”, ovvero suppostamente attenta all’ambiente e rispettosa dei lavoratori.

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Come scrisse il saggista statunitense Ezra Pound, “Non si può fare una buona economia con una cattiva etica“. Con questa massima introduciamo una tematica fondamentale, quella della Responsabilità Sociale d’Impresa: al giorno d’oggi non è più possibile pensare di lavorare bene e incrementare i propri utili senza tenere in considerazione l’aspetto sociale e ambientale del contesto in cui si è inseriti. Approfondiamo insieme l’argomento.

Cos’è la Responsabilità Sociale d’Impresa

In inglese definita Corporate Social Responsibility (CSR), con questo termine si intende l’impegno dell’azienda a salvaguardare il benessere collettivo, gli aspetti sociali ed ecologici della comunità nella quale opera. Si tratta di una pratica volontaria, non determinata dall’imposizione di normative o leggi statali, che le imprese seguono al fine di tenere in considerazione e soddisfare le esigenze di tutti gli stakeholder (di cui abbiamo parlato in questo articolo).

L’adozione di una politica aziendale etica e responsabile ha come scopo non soltanto l’offerta di prodotti qualitativamente avanzati, ma anche lo sviluppo di servizi affidabili, sicuri, attenti al risparmio energetico, alla tutela dell’ambiente e correttamente spiegati tramite i media e le advertising.

L’esigenza di ascoltare le necessità degli stakeholder iniziò a manifestarsi intorno agli anni trenta del ‘900 quando, dopo una profonda crisi di Wall Street, si iniziarono a valutare i vantaggi di un’economia non legata soltanto alla realizzazione di profitto, ma alla creazione di benessere e soddisfazione di dipendenti, clienti, fornitori e collaboratori.

Negli anni ’50 è l’economista Howard Bowen a teorizzare per primo la Responsabilità d’Impresa nel saggio intitolato “Social Responsibilities of the Businessman”; questa scuola di pensiero viene poi profondamente influenzata e subisce un’enorme cambiamento quando, negli anni ’80, si interseca con la Teoria degli Stakeholder di Freeman: ancor di più si sottolinea l’importanza di portare avanti cause sociali e ambientali al fine di ottenere il consenso degli stakeholder e attirare nuovi potenziali clienti.

Il 91% dei consumatori ha infatti dichiarato di aspettarsi che le aziende a cui si affidano operino in maniera responsabile e sostenibile.

Con il progresso della tecnologia, il cambiamento dello stile di vita dei cittadini e delle problematiche legate all’inquinamento e al surriscaldamento globale, è stato designato un nuovo ruolo per le imprese all’interno della società, che ora non sono più viste come produttrici di utili, ma come portatrici di valori, ideali e consapevolezza.

Come integrare la CSR nella propria strategia d’impresa

Tenere conto della Responsabilità Sociale d’Impresa non solo crea valore economico, ma anche sociale e ambientale. Per fronteggiare il cambiamento in corso nell’ultimo secolo, le aziende hanno adottato misure quali rendiconti sociali, bilanci sociali e bilanci ambientali. Con la loro introduzione si è andata via via instaurando una nuova logica non più basata sul One Bottom Line (la riga conclusiva del bilancio aziendale, in cui si indicano i profitti realizzati), ma su una Triple Bottom Line trasversale che tiene conto dei risultati ottenuti non solo a livello meramente economico, ma anche sociale e ambientale.

Per concretizzare il proprio impegno, passi importanti sono per esempio l’adozione di prassi di gestione delle risorse umane responsabili ed etiche, la sponsorizzazione di eventi, donazioni a sostegno di particolari cause, fondazione di associazioni e organizzazioni, passaggio a metodi di fabbricazione meno impattanti sull’ambiente e a mezzi di trasporto ecosostenibili.

Quali sono i vantaggi che comporta la CSR

Il fine ultimo della CSR è l’eliminazione del divario tra profitto economico e creazione di benessere collettivo, in modo da immergersi in un flusso interdipendente che porti benefici a entrambi gli aspetti dell’impresa. Le aziende lungimiranti sanno che la Responsabilità Sociale d’Impresa è da intendersi come uno sforzo e un investimento che darà i propri frutti sia nell’immediato ma soprattutto nel lungo termine, andando a minimizzare i rischi che politiche economiche sfacciate e sconsiderate produrrebbero inevitabilmente.

Una gestione consapevole della propria azienda aiuta anche a migliorare la brand image e a sviluppare un vantaggio competitivo sul mercato: il 55% dei consumatori ha dichiarato di essere disposto a pagare un prezzo maggiore per sostenere un’impresa attiva e responsabile nel sociale. Trattare i clienti in maniera attenta li spingerà con molta probabilità a tornare e a consigliare l’azienda ai propri conoscenti, pertanto è bene renderli partecipi di qualunque iniziativa sfruttando tutti i canali a propria disposizione.

La Responsabilità Sociale non solo crea benefici esterni all’impresa, ma anche interni: trattare con rispetto e considerazione i propri dipendenti ha almeno la stessa importanza di un comportamento adeguato nei confronti dei clienti. Proporre iniziative stimolanti e sostenibili e adottare politiche eque farà sì che il dipendenti siano maggiormente partecipi e coinvolti, e più facilmente trattenuti all’interno dell’azienda, traducendosi in fatica risparmiata nella ricerca di nuove risorse qualora le precedenti decidessero di andarsene per malcontento.

Mentre si adottano tutte queste misure legate alle CSR, è sempre bene tenere d’occhio anche i competitor: nell’era frenetica in cui viviamo, è facile venire sorpassati senza rendersene conto e il rischio di obsolescenza è sempre dietro l’angolo. Essere attenti verso tutte le nuove tematiche sociali che potrebbero insorgere è fondamentale al fine di trattarle in maniera più tempestiva e consapevole rispetto alla concorrenza, posizionandosi meglio nella percezione del consumatore.

Se inizialmente può essere considerata un investimento, sul medio e lungo termine una politica socialmente responsabile può far risparmiare notevolmente in termini economici. Le risorse possono così essere impiegate nell’ulteriore miglioramento dell’impresa o come investimento per l’espansione della stessa.

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Ormai lo sappiamo, il glossario del marketing è pieno di terminologie e definizioni specifiche tra le quali è facile perdersi o ingarbugliarsi. In questo articolo analizzeremo la figura dei “portatori di interesse“, in gergo i cosiddetti “stakeholder“: chi sono, qual è il loro ruolo e come vengono classificati? Scopriamolo.

La figura dello Stakeholder

“Portatore di interesse” è la traduzione in italiano del termine “stakeholder”, che letteralmente sta a significare “colui che ha della posta in gioco“.

Si tratta infatti di individui singoli, gruppi di persone o organizzazioni che nutrono interesse nei confronti di un determinato business o progetto, e che hanno a cuore la sua buona riuscita.

La definizione è volutamente generica, in quanto al suo interno sono davvero compresi tutti coloro che hanno, a qualsiasi livello, influenza sull’azienda e sul suo operato. Sono quindi compresi i proprietari, i manager, i dipendenti, i fornitori, i clienti, i tester, ma anche le associazioni a tutela e i governi che regolamentano un determinato settore.

Si sente spesso parlare degli stakeholder in base al loro ambito, che può essere la finanza, il turismo, il commercio o il farmaceutico; la maggior parte dei business, al giorno d’oggi, sono considerati in realtà “multistakeholder“, in quanto la molteplicità di individui coinvolti nell’azienda nutre interessi ben diversi gli uni dagli altri, nei confronti dello stesso business.

Gli investitori, per esempio, punteranno al ritorno economico, i dipendenti a migliorare la propria posizione all’interno della gerarchia aziendale e i governi a far sì che tutte le norme vengano rispettate.

Edward Freeman, che nel 1983 fu uno dei primi studiosi a ideare una vera e propria teoria in merito alla figura dei portatori d’interesse, sosteneva che addirittura i competitor potessero essere considerati stakeholder nei confronti di un marchio, in quanto appartenenti al medesimo settore e con obiettivi comuni.

Successivamente si concordò che tale definizione fosse troppo generica, e che fosse necessario tenere in considerazione soltanto gli individui le cui azioni fossero determinanti ai fini della riuscita di un business.

La differenza tra Shareholder e Stakeholder

Come detto in precedenza, è facile confondersi tra i vari termini e utilizzarli impropriamente come sinonimi, cosa che spesso accade con stakeholder e shareholder.

Con shareholder si indica un azionista che ha legalmente acquistato quote dell’azienda: il suo interesse è dunque tangibile e lo rende automaticamente anche uno stakeholder.

Al contrario, lo stakeholder non necessariamente deve aver rilevato quote o essere intenzionato a farlo, ma il possedimento di queste ultime non determina il suo stato di portatore di interesse: è il coinvolgimento nell’operato e nel destino dell’azienda a farlo.

Gli interessi dello stakeholder sono nella maggior parte dei casi basati sul lungo termine, mentre quelli di uno shareholder sono temporanei e destinati a esaurirsi con il tempo in base all’andamento del mercato.

La classificazione degli Stakeholder e la loro gestione

Gli stakeholder non sono, ovviamente, tutti uguali: la suddivisione preliminare da fare è quella tra internal ed external stakeholder: i primi sono costituiti da coloro che operano attivamente all’interno del business, come i dirigenti, l’amministrazione e gli impiegati, mentre i secondi sono rappresentati da tutti coloro che vi entrano in interazione solo esternamente, come i consumatori, le associazioni e le istituzioni di riferimento.

Dopo questa prima classificazione, è il momento di mappare gli stakeholder in base alla rilevanza nei confronti dell’azienda. Di conseguenza troviamo:

Stakeholder primari: i più importanti, strettamente legati alle sorti dell’azienda (proprietari, investitori, dipendenti)

Stakeholder secondari: sono importanti, ma meno coinvolti nel funzionamento vitale del business (clienti, fornitori, banche)

Stakeholder terziari: si tratta di soggetti portatori di interessi molto marginali, rilevanti ma meno diretti (istituzioni governative, associazioni)

Excluded stakeholder: sono coloro che non hanno praticamente nessun impatto sull’azienda, come per esempio i bambini e coloro che non possono avvalersi di autonomia di spesa

Mappare e analizzare gli stakeholder non è soltanto necessario nella fase iniziale dell’avvio di un business, ma diventa estremamente utile strada facendo per individuare possibili minacce o inglobare nuovi alleati per lo stesso.

Concretamente, la mappatura può essere realizzata tramite un piano cartesiano le cui due assi indicano il potere e l’influenza dei soggetti sull’azienda (la cosiddetta “power-influence stakeholder matrix“), oppure tramite un diagramma di Venn che metta in correlazione potere, credibilità e necessità degli individui per l’azienda.

Gestire, ascoltare e interagire con tutti i gradi di stakeholder è importantissimo per un’azienda stabile e lungimirante: se per la teoria economica tradizionale l’unico obiettivo di un brand è sempre e soltanto il tornaconto economico, per la stakeholder theory è cruciale la soddisfazione di tutte le parti coinvolte, anche quelle non primarie.

Le controversie e le incomprensioni con gli stakeholder rischiano di minare la stabilità del business e creare episodi di stakeholder in negativo, che è quanto di meno auspicabile potrebbe accadere a un imprenditore o fondatore di un business. Basti pensare allo scompiglio generato a fine 2020 nelle grandi compagnie di food delivery, causato dall’insorgenza dei rider per la rivendicazione dei propri diritti.

La comunicazione tra tutte le parti deve pertanto essere costante, aperta e chiara, ed è necessario scambiarsi periodicamente report, analisi e statistiche per assicurarsi che tutti i reparti siano pienamente soddisfatti dell’operato dell’azienda.

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Hai utilizzato i risparmi di una vita per mettere in piedi l’attività che sognavi da anni, hai avuto a che fare con burocrazia, ritardi e contrattempi… Ma finalmente ce l’hai fatta. Il tuo brand è diventato realtà… E ora?

Non basta di certo fondare il proprio marchio per far sì che funzioni e che le vendite inizino a galoppare.

In questo articolo scopriremo tutti i segreti su come migliorare l’immagine e la visibilità del tuo brand.

Scegli il nome adatto

Qual è la primissima cosa che il cliente nota del nostro marchio? Prima ancora della qualità dei prodotti, dell’efficacia del servizio, della disponibilità del personale… C’è il nostro nome. Esatto, una caratteristica tanto “semplice”, quanto fondamentale.

Scegliere il nome perfetto potrebbe sembrare un’operazione veloce e indolore, ma in realtà necessita di tutto il nostro impegno e concentrazione. Al giorno d’oggi, il mercato è saturo praticamente in ogni settore, ragion per cui è necessario più che mai scegliere un nome che si distingua dalla massa e non ci renda anonimi.

In tanti sono caduti nella trappola del nome descrittivo, ovvero quello che descrive fin troppo bene il tipo di prodotto venduto, senza conferirgli nessuna nota di mistero e originalità. Nel tempo, i cosiddetti nomi descrittivi hanno causato il fallimento di numerose aziende che, seppur pioniere nel loro settore, non sono riuscite a tenere a bada la concorrenza che negli anni è riuscita a innovare non tanto dal punto di vista del prodotto, quanto del naming.

Come abbiamo già citato qui, Superpila è un esempio eclatante di questo fenomeno: l’azienda veneta di batterie elettriche, fondata agli inizi del ‘900, ebbe un’enorme espansione a metà del secolo, che andò presto scemando negli anni ’80 con il boom economico e la nascita di nuovi brand in ogni angolo del mercato. Superpila passò presto dall’essere un nome proprio di azienda, a un nome comune per indicare una batteria elettrica di estrema durata.

Esempi di aziende che non sono cadute in questo tipo di inganno? Senza dubbio loro, i colossi Nutella, Apple, Windows e Coca Cola. I loro nomi giocano su allitterazioni, doppi sensi, richiami ad altri idiomi, con una buona dose di fantasia. Ecco il mix perfetto per fare naming in modo efficace!

La popolarità del marchio: cos’è e come si ottiene

Dopo tanta fatica, innumerevoli brain storming e ipotesi scartate, ce l’abbiamo fatta: abbiamo scelto il nome del nostro marchio. Ora è il momento di aumentarne la popolarità, chiamata in gergo “brand awareness“.

Con questo termine si indica la percezione astratta che il cliente hai nei confronti del brand. Per identificarla, ci si basa prevalentemente sulla capacità del pubblico target di ricordare e riconoscerne il logo, l’immagine, e sapere di che prodotto si tratti.

La brand awareness si suddivide in Aided, quando il ricordo viene stimolato in qualche modo tramite immagini, suoni o domande, e Unaided quando insorge spontaneo senza nessun tipo di input esterno. Inutile sottolineare che l’aspirazione di ogni brand è riuscire a instillarsi nella mente del proprio pubblico target senza necessità di sollecito di alcun tipo.

Per misurare in maniera concreta il livello di brand awareness esiste uno strumento chiamato Piramide di Aaker, dall’economista statunitense che ideò questo metodo. La piramide suddivide i dati raccolti tramite sondaggi e analisi di mercato in quattro grandi categorie, in base al livello di conoscenza che gli intervistati hanno mostrato nei confronti dei brand analizzati.

Alla base della piramide c’è il livello Unaware of Brand, quando il consumatore non ha mai sentito parlare del marchio. Subito dopo troviamo il Brand Recognition, quando è in grado di riconoscerlo solo in seguito a input esterni.

Brand Recall è il livello nel quale il consumatore ricorda e riconosce il brand senza bisogno di stimoli esterni (unaided brand awareness), mentre in cima alla piramide è posizionata la Top Of Mind Awareness (TOM).

Giunti a questo punto della scalata, il nostro brand è il primo a venire alla mente del pubblico quando viene menzionata una determinata categoria merceologica.

Per scoprire di più sulla brand awareness e su come aumentarla, leggi il nostro articolo dedicato.

Sponsorizzazioni e collaborazioni per rafforzare la brand awareness

Abbiamo capito cosa sia la brand awareness, come identificarla e quali sono i suoi vari livelli. Arriviamo al clou, come facciamo a scalare la Piramide di Aaker? La risposta è quasi fin troppo banale: tramite la pubblicità, di ogni tipo.

In particolare, c’è un tipo di strategia pubblicitaria che è in grado di accrescere la brand awareness e fidelizzare il pubblico: le sponsorizzazioni.

Con questo termine si intende un investimento a favore di eventi, organizzazioni, spettacoli e manifestazioni, al fine di far entrare a conoscenza del nostro brand tutte le persone che vi parteciperanno.

Le sponsorizzazioni hanno il potere di far inserire meglio il brand all’interno della comunità, che sia a livello locale o nazionale, e farlo percepire come più attento nei confronti di una determinata tematica o movimento sociale. In questo modo si aumenta la propria copertura, oltre che la credibilità, e si riesce a entrare in contatto con numerosi nuovi potenziali acquirenti.

Se tutto questo riguarda le sponsorizzazioni “fisiche”, c’è da aprire una parentesi sulle sponsorizzazioni sui Social Network che al giorno d’oggi sono parte integrante della vita dei cittadini. Sui social, le aziende promuovono sé stesse lavorando con i cosiddetti “influencer“, personaggi pubblici che condividono il proprio stile di vita e le proprie preferenze con il grande pubblico.
Si tratta di un tipo di pubblicità più sottile ed empatica, in quanto il consumatore tende a identificarsi con l’influencer e a riporvi fiducia, acquistando i prodotti da lui consigliati.

Il magico mondo dei microinfluencer

Se sponsorizzare un influencer di portata nazionale o internazionale è un privilegio che non tutte le aziende possono permettersi, decidere di lavorare con i cosiddetti “microinfluencer” è una strategia di marketing molto astuta e saggia. I microinfluencer rimangono solitamente sotto la soglia dei 20 mila follower, con i quali però si è venuta a creare una community molto attiva, che interagisce di frequente e con molto entusiasmo ai contenuti condivisi.

Scegliere di approcciarsi ai microinfluencer consente di contenere i costi mentre si raggiunge un target ben definito e genuinamente interessato al prodotto. Prima di inviarli, infatti, sarà importantissimo selezionarli a dovere in base alle caratteristiche del collaboratore, al suo stile di vita e alle sue preferenze. Se con un macroinfluencer si può instaurare empatia, con un microinfluencer il pubblico crea un vero e proprio rapporto di amiczia, fiducia e supporto. Per questo motivo spesso sono proprio i microinfluencer a generare più vendite alle aziende rispetto a nomi più conosciuti, che rischiano di risultare troppo distaccati e impersonali nella presentazione dei prodotti.

Una volta intrapresa questa strada, si può scegliere di procedere con una classica box di prodotti in regalo, che il collaboratore recensirà sui propri canali social, oppure proporre di organizzare un concorso (giveaway) con il quale si potranno aumentare le interazioni sia sui profili dell’azienda che su quelli del collaboratore. La diffusione di un buono sconto, spesso affiliato, e la promozione di un hashtag esclusivo sono altre strategie che si possono mettere in atto, da utilizzare da sole o in combinazione con quelle precedentemente citate.

Racconta il tuo marchio tramite lo storytelling

A proposito di empatia, è proprio questa caratteristica una delle fondamentali per consolidare la brand awareness. Possiamo offrire un prodotto di eccellenza, aver studiato una proposta commerciale attenta e aver pianificato una strategia di marketing intelligente, ma se il nostro approccio manca di una genuina connessione con il pubblico, il nostro brand apparirà sempre freddo, distaccato e privo di valori propri.

Di questo si occupa l’arte dello storytelling: raccontare il proprio marchio al cliente, tramite una storia ricca di emozioni che si faccia veicolo di messaggi importanti da condividere con il consumatore. Quando quest’ultimo è in grado di identificarsi con gli ideali e i valori di un brand, sarà molto più invogliato a sceglierlo rispetto a un competitor con il quale non condivide la filosofia.

Per fare dello storytelling una strategia concreta, è necessario prima di tutto osservarsi, studiarsi e analizzarsi. Chi sono io? Cosa rappresenta il mio brand? Quali sono i principi sui quali si fonda? Quali messaggi voglio trasmettere al grande pubblico?

Dopo aver trovato una risposta a tutti questi quesiti, possiamo condividere la nostra posizione su determinati argomenti con il consumatore, facendoci suo portavoce e rappresentante.

Creare una storia coinvolgente e di successo richiede una ricerca accurata: esistono diverse tecniche narrative di cui ci si può avvalere, clicca qui per approfondirle.

Nel marketing… l’abito fa il monaco

Attraverso uno storytelling adeguato, saremo in grado di consolidare una buona immagine del marchio nell’immaginario del consumatore. Una brand image positiva è infatti l’obiettivo a cui aspirano (o dovrebbero aspirare) tutti gli imprenditori: come abbiamo già visto, è “soltanto” la percezione soggettiva del cliente finale ciò che lo porta a sceglierci tra le tante proposte sul mercato.

Per differenziarci della massa, dobbiamo puntare non solo su un prodotto di qualità, ma sulla trasmissione di valori e messaggi importanti con i quali ci si possa identificare e sentire al sicuro. Soprattutto nei periodi di crisi sociale ed economica come quello che stiamo vivendo attualmente, la brand image gioca un ruolo di vitale importanza: quanto più sarà positiva, quante più possibilità avrà il marchio di restare in piedi e affrontare anche i periodi più bui.

È solo grazie al supporto dei clienti che ci scelgono ogni giorno che anche le piccole e medie imprese riescono a superare i momenti di recessione. Si può contare su tale appoggio se in precedenza ci si era indirizzati su strategie mirate ad aumentare la fidelizzazione del cliente.

Per migliorare la nostra brand image dobbiamo prestare estrema attenzione ai bisogni di clienti e impiegati, gestirne eventuali lamentele con cautela e professionalità, mostrare intraprendenza tramite partnership con brand più influenti, avere fiducia nel nostro marchio e dimostrarlo tramite servizi attenti e curati.

Le campagne pubblicitarie che, come menzionato in precedenza, sono lo strumento cardine tramite il quale puntiamo ad aumentare la visibilità del marchio, dovranno essere studiate ad hoc, inclusive e non discriminatorie, evitando azioni azzardate e scivoloni che potrebbero azzerare in un secondo ciò che si è costruito in anni di duro lavoro.

Recessione economica e mantenimento della clientela

A proposito di momenti bui, con l’avvento della pandemia a inizio 2020 tutte le attività commerciali sono state messe a dura prova, nessuno escluso. C’è chi purtroppo non è riuscito a superare i lunghi mesi di chiusure e restrizioni arrivate come un fulmine a ciel sereno, e chi invece è riuscito a venirne fuori non senza difficoltà, perché ha saputo reinventarsi e adattarsi al cambiamento in maniera rapida e intelligente.

Mai come nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo potuto riscontrare quanto la fidelizzazione del cliente sia importante: a causa delle circostanze, la maggior parte dei consumatori ha cambiato le proprie abitudini di acquisto, passando allo shopping online, oppure recandosi nel punto vendita più vicino alla propria abitazione che non sempre coincideva con quello di fiducia.

Quando il consumatore sceglie il nostro marchio perché ne ha un’immagine positiva legata a buone esperienze pregresse, soddisfazione derivata dal prodotto e connessione con i valori espressi, si parla di brand loyalty. In questo caso, il cliente tenderà a preferirci anche a costo di un prezzo leggermente più elevato o a una lieve scomodità nel raggiungerci.

Quando invece il prodotto viene acquistato per un’esigenza momentanea per la quale si desidera risparmiare il più possibile, senza basarsi su esperienze passate e su una condivisione di valori, abbiamo invece la cosiddetta customer loyalty. Una sorta di soddisfazione a breve termine, che ci consente di finalizzare la vendita ma non ci garantisce un nuovo cliente affezionato.

In questo articolo abbiamo svelato tutte le tecniche per instaurare e mantenere la fidelizzazione del cliente.

Studiare la giusta offerta commerciale

Un brand di successo ha fondamenta solide costituite da una commistione di fattori tutti perfettamente intersecati tra di loro. Come citato in precedenza, oltre alla qualità del prodotto, abbiamo bisogno anche di una buona immagine, di una filosofia portante e, ultimo ma non per importanza, di attirare l’attenzione del cliente con un’offerta commerciale ben pensata.

L’offerta commerciale non è il catalogo di tutti i prodotti e servizi offerti, quanto una selezione di essi che cambia con la stagionalità, gli eventi socio-economici e le tendenze di acquisto della clientela target. Il fine ultimo è sempre quello di vendere il prodotto, o il pacchetto di prodotti, che meglio rappresenta e supporta il nostro business, ma per farlo dobbiamo riuscire a convincere il cliente che questa sia la scelta migliore anche per le sue esigenze.

Per questo le offerte commerciali funzionano quanto più vengono personalizzate: ogni cliente è diverso, e i bisogni di chi acquista da anni sono nettamente diversi da quelli di chi è appena venuto a conoscenza della nostra esistenza. Ricordiamo sempre che il prezzo di vendita è fondamentale non solo per garantirci un’entrata, ma anche per determinare il posizionamento del nostro prodotto nell’immaginario del grande pubblico. Un prezzo stracciato tende a svalutare la nostra proposta, facendola sembrare scadente e priva di qualità.

Un prodotto costoso, invece, tende a creare nella mente un’aspettativa di alta qualità a ricercatezza. Per scoprire di più su come creare un’offerta commerciale intelligente, clicca qui.

Quanto devo investire nella pubblicità?

Quando si decide di investire su una campagna pubblicitaria è necessario ponderare a dovere le mosse da compiere, i canali sui quali effettuarla e il budget da mettere a disposizione. Come abbiamo visto, infatti, una comunicazione sbagliata può compromettere gravemente immagine e credibilità, pertanto è meglio non rischiare con azioni avventate.

Oltre alla conoscenza approfondita del proprio target, per definire l’investimento pubblicitario dobbiamo tenere in considerazione alcuni dati importanti quali lo Share of Spending e lo Share of Market. Il primo fa riferimento al posizionamento dell’azienda nel settore merceologico, e si calcola facendo il rapporto tra il proprio investimento e quello del mercato di appartenenza.

Lo share of market (in italiano “quota di mercato“) è la percentuale di vendite totalizzate da un’azienda all’interno della propria categoria, e si ottiene facendo il rapporto tra le proprie vendite di in un determinato lasso di tempo, e il totale delle vendite dell’intero settore realizzate nello stesso periodo.

Tutti questi dati ci serviranno per calcolarne uno determinante: l’indice di aggressività. Facendo il rapporto tra SOS e SOM otteniamo la risposta al nostro quesito: quanto investire per la pubblicità? Per scoprire cosa significano i diversi valori dell’indice di aggressività, leggi il nostro articolo dedicato.

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Per veder prosperare il proprio brand, non c’è solo bisogno di un prodotto di qualità, ma di tanti accorgimenti e strategie sotto molteplici punti di vista.

La pubblicità viene generalmente percepita dal consumatore in maniera molto più superficiale rispetto all’immenso lavoro di ricerca celato alle spalle di una campagna efficace e risonante.

Scopriamo insieme alcuni concetti chiave per condurre al meglio le proprie iniziative pubblicitarie.

L’importanza del web marketing

Come abbiamo già ampiamente sottolineato in questo articolo, nell’era digitale in cui ci troviamo è imprescindibile puntare su campagne marketing online che siano ben studiate e di conseguenza forti e proficue.

I piccoli business a conduzione famigliare (e non), per farsi strada in un mondo di multinazionali, non possono permettersi di restare indietro sottovalutando l’importanza del web, dei social e di un’azione pubblicitaria mirata.

La conoscenza del proprio target è un ingrediente primario per il successo.

Un mix intelligente di ricerca, analisi, campagne pubblicitarie e campagne social ha lo scopo di aumentare la brand awareness (che abbiamo approfondito qui), l’engagement e la brand affinity. Ma ancora prima di mettere in piedi una campagna marketing, è necessario avere a disposizione informazioni e dati che ci permettano di concentrare le nostre risorse su un obiettivo concreto, ambizioso ma perseguibile. Solo dopo aver effettuato gli studi appropriati, si avranno le conoscenze per poter identificare il giusto budget da investire nella pubblicità online (e non solo).

Per fare ciò esistono alcune unità di misura predeterminate, dette Share of Spending e Share of Market, la cui conoscenza è indispensabile se si desidera investire saggiamente il proprio capitale e ottenere benefici sul lungo termine.

Cosa sono Share of Spending e Share of Market

Partiamo dalle basi: innanzitutto, è necessario sapere quale sia il posizionamento del proprio brand all’interno del mercato, rispetto ai competitor. Per farlo, dobbiamo prima calcolare il cosiddetto Share of Spending (SOS), ovvero la quota di spesa pubblicitaria effettuata dall’azienda. Questa cifra viene ottenuta facendo il rapporto tra il proprio investimento pubblicitario e quello complessivo del settore di mercato di riferimento.

Quando questa analisi si basa prettamente su campagne pubblicitarie televisive, è più appropriato parlare di Share Of Voice, ovvero il dato che esprime il tasso di visibilità di un brand. 

Per calcolare lo Share of Voice, è necessario avere a disposizione un ulteriore dato, il GRP, ovvero il “Gross Rating Point“. Si tratta della pressione esercitata dal mezzo pubblicitario scelto, sul pubblico target di riferimento. Questa unità di misura convenzionale viene utilizzata prettamente per valutare le campagne marketing effettuate sui mass media. Se l’intento è calcolare lo Share of Voice di un’azienda, sarà necessario eseguire il rapporto tra il GRP del settore e il GRP dell’impresa stessa.

Se si desidera focalizzarsi invece su altre piattaforme pubblicitarie al di là della televisione, il dato da avere a portate di mano è appunto lo Share of Spending, insieme al quale sarà necessario anche lo Share of Market (in italiano “quota di mercato”), ovvero la percentuale di vendite totalizzate da un’azienda all’interno di un dato settore di mercato. Questa cifra si ottiene facendo il rapporto tra le vendite di un’azienda in un determinato lasso di tempo, e il totale delle vendite dell’intero settore realizzate nello stesso periodo.

Per definire con esattezza il budget da destinare alla pubblicità, dovremo calcolare il rapporto tra SOS e SOM, ottenendo così un nuovo importantissimo dato: l’indice di aggressività.

Cos’è e a cosa serve l’indice di aggressività

L’indice di aggressività, abbreviato in AI dall’inglese “aggressivity index“, serve a monitorare l’andamento di un’azienda e a stabilire il reale budget pubblicitario da investire. Nel glossario del marketing, questo termine rappresenta un concetto di fondamentale importanza per la buona riuscita della propria strategia commerciale e marketing.

Infatti, è utile a comprendere quanto direttamente si stia comunicando con i propri clienti (o potenziali), a valutare e a potenziare il ranking della SEO tramite il supervisionamento del traffico e delle vendite generate dal sito.

Sono tre gli scenari che ci si possono presentare quando ci si accinge a calcolare il proprio AI.

Quando è maggiore di 1 (SOS>SOM), significa che l’azienda sta attuando una strategia di attacco, con investimenti cospicui nella pubblicità

Quando è uguale a 1 (SOS=SOM), si sta mantenendo una posizione di neutralità

Quando è minore di 1 (SOS<SOM), l’azienda ha deciso di mettersi in difensiva, magari revocando qualche investimento o puntando ad altri strumenti di marketing

Queste unità di misura ci mostrano la fondamentale importanza della ricerca antecedente all’investimento, e ci forniscono indizi sul successo delle principali aziende leader sul mercato.

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Possedere un’attività, sia fisicamente che online, non è sufficiente a garantirsi la clientela se non si dispone anche di una forte offerta commerciale. I clienti infatti non varcheranno la porta del nostro negozio come per magia, ma dovranno essere attratti da ciò che noi proponiamo e dal valore percepito del nostro prodotto. Vediamo come sfruttare al meglio gli strumenti a nostra disposizione e ottimizzare le vendite.

Cos’è l’offerta commerciale

Con “offerta commerciale” non si intende l’intero listino di prodotti o servizi disponibili presso la nostra attività, quanto una selezione specifica volta a rispondere al meglio alle esigenze di un dato segmento di clientela.

L’offerta commerciale è dinamica e variabile nel tempo a seconda di ciò che funziona meglio, a differenza del listino prezzi che è destinato a rimanere pressoché invariato, fatta eccezione per aggiunte o rimozione di prodotti al suo interno.

In quanto imprenditori, dovremmo essere in grado di dare vita alle offerte giuste per attirare la nostra clientela target e fare in modo che non riesca a rifiutare ciò che stiamo proponendo.

Per fare in modo che l’offerta funzioni, è necessario rispettare alcuni requisiti base:

Esaltare e trasmettere il valore del nostro prodotto/servizio: oltre a proporre un pacchetto, dobbiamo fare in modo che il potenziale acquirente percepisca il suo valore e sia invogliato ad acquistarlo senza indugio. Svendere un insieme di prodotti a un prezzo stracciato, senza spiegare dettagliatamente ciò che offriamo, solo per attirare potenziali nuovi clienti non è una mossa saggia da nessun punto di vista.

Essere coerente con il brand: l’offerta deve andare di pari passo con la nostra brand identity e con la mission che abbiamo deciso di perseguire.

Integrarsi con la strategia commerciale: i pacchetti che offriamo al cliente vanno creati dopo aver analizzato l’aspetto commerciale. Non possiamo mettere in piedi offerte sensazionali rischiando di andare in perdita.

Rispondere ai bisogni dei clienti: una buona offerta commerciale è sempre guidata da un obiettivo ben preciso, in questo caso rispondere a una necessità del cliente, anche a seconda del suo rapporto con l’azienda. Un cliente abituale ha esigenze ben diverse da chi è appena venuto a conoscenza del marchio.

Gli obiettivi dell’offerta commerciale

La cosa più importante durante l’ideazione di un’offerta commerciale è non perdere mai il focus: dobbiamo riuscire a vendere il pacchetto che meglio supporta il nostro business.

Innanzitutto dobbiamo chiederci cosa vogliamo ottenere con questa iniziativa. Attrarre nuovi clienti? Aumentare la brand loyalty? Incrementare le vendite? A seconda della risposta, la struttura della nostra offerta subirà dei cambiamenti.

Al giorno d’oggi, il consumatore desidera vivere un’esperienza di acquisto personalizzata ed essere coccolato dall’inizio alla fine, dal primo approccio al post vendita. Secondo recenti sondaggi, infatti, il 65% degli acquirenti ha ammesso di essere influenzato dalla presenza di offerte personalizzate, il 77% di essere invogliato all’acquisto grazie agli sconti e di questi ultimi, ben il 48% accelera il processo decisionale per non perdersi le offerte in corso.

Sulla base di queste premesse, è bene selezionare con cura il target al quale ci si sta riferendo. Nonostante una buona fetta di esperti di marketing rimangano dell’idea che la legge dei grandi numeri porti a effettivi benefici (cercando di arrivare a più consumatori possibili senza distinzione di target, per forza una piccola parte sarà interessata a ciò che proponiamo), il nostro consiglio è quello di canalizzare le proprie risorse per studiare i segmenti che desideriamo coinvolgere.

Per farlo è utile organizzare piccoli sondaggi, sfruttare i dati raccolti per creare un’offerta commerciale accattivante per il cliente e vantaggiosa per noi.

Il prezzo con il quale mettiamo in vendita un dato prodotto o servizio non determina solo il  guadagno, ma anche la percezione che l’acquirente avrà di noi. Più alto è il prezzo e maggiore sarà la qualità percepita inizialmente, ancora prima di finalizzare l’acquisto. Superfluo sottolineare che, se l’esperienza e il test del prodotto non dovessero risultare all’altezza del prezzo pagato, questa strategia si rivolterebbe immediatamente verso l’imprenditore che perderà clienti e rischierà un pericoloso passaparola negativo.

Tipologie di offerte commerciali

Così come esistono diverse categorie di clienti, anche le offerte commerciali si differenziano in base alle loro caratteristiche. L’importante è sapersi distinguere dai competitor e riuscire a indirizzare il consumatore verso la miglior proposta nella data circostanza. I consumatori si possono distinguere in Clienti/Clienti Abituali/Ex Clienti/Passaparola. Idealmente, a ognuna di queste categorie dovremmo essere in grado di dedicare un’offerta esclusiva.

Vediamo ora i principali esempi di offerte sfruttabili per spingere la propria attività.

Offerta a tempo limitato: utile a instillare nel cliente un senso di urgenza e necessità di acquisto prima che l’offerta finisca.

Promozione esclusiva: volta prettamente a fidelizzare il cliente e a spronare un acquisto ricorrente dopo aver già provato il brand.

Prodotto/servizio in omaggio: anche questa iniziativa è particolarmente utile per aumentare la brand loyalty.

Nuovo prodotto: in occasione dell’inserimento di una nuova referenza nel listino, insieme a una buona campagna di marketing e comunicazione, è strategico l’utilizzo di un’offerta dedicata.

Contest/giveaway: nell’era digitale, organizzare concorsi sui propri profili social aiuta a coinvolgere il pubblico già esistente e ad attrarre nuovi clienti.

Referral: il classico “porta un amico” funziona in quanto dà benefici sia al cliente affezionato che sparge la voce sia al nuovo che entra a conoscenza del brand.

Sconto: nel gergo commerciale, sconto non è sinonimo di offerta. Può costituire comunque una buona strategia se utilizzato a dovere.

Secondo le statistiche, il 66% dei consumatori modifica le proprie abitudini di acquisto in base alle offerte disponibili. Ciò significa che con un adeguato studio e conoscenza del proprio business e target, è possibile condurre un’attività di successo che renda soddisfatti sia clienti che imprenditori.

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Quando si parla di brand image ci si riferisce alla percezione soggettiva del consumatore nei confronti del marchio. Si tratta pertanto di un insieme di associazioni che prendono forma solo e soltanto nella mente della clientela di riferimento e che, quando di natura positiva, garantiscono successo e prosperità all’azienda. La brand image è una struttura estremamente delicata, che si costruisce con attenzione, costanza e duro lavoro. Scopriamone i segreti.

Cos’è la brand image

L’ultima cosa che qualsiasi brand al mondo desidera è vedere instillata una cattiva brand image nella mente del compratore. La percezione del marchio comprende qualità intangibili ma di vitale importanza quali l’affidabilità, la funzionalità, la facilità d’uso, l’appeal e il valore complessivo del prodotto.

Si è iniziato ad attribuire il giusto peso all’immagine del marchio quando ci si è resi finalmente conto dell’influenza che essa può avere sulle abitudini di acquisto dei consumatori. Al giorno d’oggi non ci si può più permettere di vendere un mero prodotto o servizio, ma è necessario rispecchiare e farsi portavoce dei valori e delle credenze dei propri clienti.

Il consumatore, infatti, viene inequivocabilmente attratto dal marchio più affine alla propria mentalità e stile di vita. Di fronte a un mercato saturo di proposte tutte molto simili tra loro, sono il carattere e l’unicità a fare la differenza: basti pensare che ben il 90% di tutti gli acquisti si basano solo ed esclusivamente sulla brand image.

Il cliente non dovrebbe mai percepire l’azienda come “una delle tante”, ma come una realtà di spicco da sostenere con piacere, per questo la creazione di una buona brand image è il primo obiettivo da perseguire non appena fondata la propria attività. Si tratta di un processo lungo che richiede impegno, costanza e dedizione, basato su un rapporto di fiducia, comunicazione e soddisfazione reciproche tra azienda e consumatore.

I vantaggi di una buona brand image nei periodi di crisi

Disporre di una buona brand image può letteralmente salvare un’attività, soprattutto in momenti di incertezza e crisi generale, come quella che stiamo sperimentando nell’era del Covid. La credibilità e l’affidabilità del marchio, precedentemente instillate nell’immaginario del cliente, sono fattori cruciali che hanno anche la capacità di:

-facilitare l’inserimento di nuovi prodotti nel catalogo del marchio

-attirare nuovi clienti oltre a mantenere quelli già esistenti

-sviluppare una miglior relazione tra il cliente e il brand

-aumentare la fiducia nei confronti dell’attività

-giustificare e invogliare a scegliere un prodotto premium price, rispetto a uno dal prezzo nettamente inferiore.

I fenomeni storici e sociali di grande portata modificano inevitabilmente i comportamenti dei consumatori, e di conseguenza anche il modo di fare marketing e comunicazione cambia: è necessario capire cosa le persone si aspettano dal brand in un determinato momento storico, per rafforzare la propria immagine e la fiducia del cliente.

In un’epoca in cui la comunicazione è più veloce che mai, in cui le informazioni sono a portata di chiunque e le tematiche sociali sono al centro dell’attenzione, è fondamentale per il brand schierarsi pubblicamente a favore di una o più di esse, in base alla propria filosofia guida.

Temi come la crisi causata dal Covid, la sostenibilità ambientale, il razzismo, la discriminazione di genere, il body shaming e il sostegno alla comunità LGBTQIA solo per citarne alcuni, andrebbero sempre tenuti in considerazione e valorizzati nel rispetto dalla propria identità e del proprio target.

Prestare il massimo dell’attenzione alle problematiche sociali non solo denota un alto livello di consapevolezza e impegno da parte del brand, ma anche una totale integrazione con il mondo contemporaneo, in costante evoluzione.

Una campagna pubblicitaria sbagliata, che leda per negligenza la sensibilità di una qualsiasi categoria, può portare a effetti catastrofici sull’immagine complessiva del marchio. Al contrario, si è rivelata vincente una narrazione propositiva e incentrata con ottimismo e speranza sul futuro.

Secondo il rapporto “Brand Trust and the Coronavirus pandemic”, pubblicato da Edelman, l’85% dei consumatori vorrebbe che i marchi utilizzassero la propria influenza per educare e sensibilizzare il grande pubblico, mentre il 71% ha dichiarato di essere pronto ad abbandonare qualsiasi brand se si dovesse approfittare delle persone nel momento di estremo bisogno. Un terzo dei consumatori ha cambiato le proprie abitudini in base alla strategia di comunicazione che i marchi hanno adottato nel pieno della crisi.

Come ottenere, mantenere e rafforzare la brand image

Una brand image positiva fonda le proprie radici nell’attitudine e nell’approccio del marchio sia nei confronti del cliente, ma anche dei propri dipendenti e collaboratori.

Per costruirla è necessario:

avere fiducia nel successo del brand sin dalla sua creazione

prefiggersi obiettivi concreti e impegnarsi per raggiungerli

-avere una strategia social potente e mantenere attive le piattaforme online

-prestare attenzione ai bisogni di clienti e impiegati

-offrire ottimi servizi

-mantenere una comunicazione aperta ed efficiente con la clientela

gestire con cautela le lamentele

-chiedere recensioni e feedback

-fare partnership con marchi più grandi e influenti

evitare azioni troppo azzardate, soprattutto al principio

-concentrarsi sul nome e sul logo del brand, assicurandosi che non risultino sconvenienti in nessuna lingua e secondo nessuna cultura

Le campagne pubblicitarie devono quindi essere sempre in linea con la comunicazione, curando ogni minimo dettaglio, dai packaging, agli eventi, alle sponsorizzazioni, alle pubbliche relazioni.

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Quella dello storytelling è una disciplina a tutti gli effetti, che consiste nel saper raccontare il proprio brand al consumatore tramite una storia che veicoli i messaggi e i valori portanti dell’azienda. In assenza di un racconto dietro al marchio infatti potremmo mancare di connessione con i nostri clienti, un fattore fondamentale alla base di ogni brand di successo.

Scopriamo di più sullo storytelling e come impiegarlo per aumentare la nostra brand awareness.

Cos’è lo storytelling

In quanto umani, l’empatia gioca un ruolo determinante all’interno delle nostre vite. Ci permette infatti di identificarci con il prossimo, trovare delle affinità e decidere se affiancare o meno il nostro percorso a quello altrui. Anche e soprattutto nel marketing, sfruttare questa caratteristica dell’uomo non solo è saggio ma costituisce la base per una brand awareness forte ed efficace.

Quando conosciamo una persona per la prima volta, per esempio, ciò che ci racconterà di sé ci consentirà di capire da dove viene, le esperienze che ha vissuto, i suoi obiettivi e i suoi valori. Solo dopo aver raccolto e processato questi dati, saremo in grado di scegliere se condividere e investire tempo ed energie nel coltivare la nuova conoscenza, oppure no.

La stessa cosa accade nel marketing: tramite lo storytelling raccontiamo una storia ricca di dettagli e impregnata di emozioni e sentimenti, solo che questa volta, invece di parlare di noi, parlerà del nostro brand. Si tratta di una strategia fondamentale, che andrà a creare un vero e proprio ponte tra l’azienda e il cliente finale.

Se il consumatore riesce a sviluppare empatia e a sentire una connessione con la storia raccontata, sarà molto più propenso a ricordare il brand e a sceglierlo a discapito dei numerosi competitor.

La strategia dello storytelling ha, infatti, i seguenti obiettivi:

-comunicare al pubblico il proprio posizionamento esistenziale

-creare una connessione tra il mondo del brand e quello del target

-raccontare i propri valori

-comunicare informazioni e concetti talvolta anche molto complessi

-favorire il senso di appartenenza

Come fare storytelling

Fare storytelling significa dichiarare pubblicamente la propria posizione in merito a un determinato topic e condividerne i valori, gli stessi sia del brand che dei suoi interlocutori.

La narrazione di cui ci avvaleremo si trasformerà in corso d’opera in una metafora di vita, che il consumatore interiorizzerà e che lo spingerà a ricordare il nostro brand per associazione alle proprie esperienze personali. Per questo motivo, dobbiamo creare una storia articolata, personalizzata e avvincente, con un protagonista, un antagonista e degli ostacoli da superare.

Dall’inizio (introduzione del problema) alla fine (finale felice), passando per lo svolgimento (ricerca e scoperta della soluzione), il consumatore dovrà sentirsi coinvolto e immedesimato nella storia.

Un registro di linguaggio molto emotivo può essere utile a questo scopo, insieme a rappresentazioni visive, testuali, iconiche, ma anche sonore, che manterranno l’interesse sempre alto nei confronti della narrazione.

Per fare dello storytelling un’arma di successo, è necessario prima di tutto conoscere alla perfezione sé stessi, il proprio brand, la propria filosofia e il proprio target.

Che cosa rappresento? Quali sono i miei valori? Chi voglio coinvolgere? Quali sono le caratteristiche dell’interlocutore?

Sono tutte domande da porsi ancora prima di sviluppare qualsiasi strategia di comunicazione.

Le principali tecniche di storytelling

Esistono tantissimi metodi tramite i quali realizzare uno storytelling di successo, a seconda del prodotto o servizio che si desidera far emergere. Vediamo insieme alcune delle tecniche più utilizzate ed efficaci.

Schema narrativo canonico

Si tratta di un metodo utilizzabile per qualsiasi forma di comunicazione, dalla pubblicità, ai discorsi, ai racconti.

Consiste nello sviluppare la propria storia seguendo dei punti cardine:

la manipolazione, ovvero il momento in cui un Donatore conferisce all’Eroe (protagonista) una missione da portare a termine, sottolineandone il messaggio e i valori

la prova qualificante, ossia la parte di narrazione in cui l’Eroe acquisisce le competenze (in questo caso il nostro prodotto/servizio) per affrontare la prova finale, ed è ora che entrano in gioco antagonisti e aiutanti

la prova decisiva, durante la quale il protagonista mostra il proprio valore e supera l’ostacolo

la prova glorificante, quando finalmente viene riconosciuto il merito al protagonista.

Il viaggio dell’eroe o monomito

È una struttura narrativa incentrata sullo sviluppo personale, molto utile da utilizzare quando si vuole enfatizzare un percorso di cambiamento come, per esempio, nei confronti di un nuovo prodotto o servizio.

Secondo questo schema, basato sugli studi dello storico Joseph Campbell, l’eroe riceve una chiamata per addentrarsi in un viaggio di autoconsapevolezza che inizialmente rifiuterà per paura del cambiamento.

Con il supporto di un mentore, riesce a varcare la prima soglia di difficoltà e così inizia il suo cammino verso la rinascita. Dopo aver superato prove e ostacoli, l’eroe ritornerà al punto di partenza completamente trasformato e consapevole, armato del nuovo prodotto/servizio/scoperta che avrà conquistato durante il tragitto.

Struttura a petalo

Consiste nella narrazione di più storie indipendenti e senza collegamenti, organizzate attorno a un unico prodotto/servizio. Il denominatore comune sarà il messaggio centrale di cui tutte le rappresentazioni si avvalgono allo stesso modo.

Si tratta di un metodo narrativo molto usato per diffondere i valori di un brand versatile che può favorire numerosi beneficiari, tutti molto diversi tra loro

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Fare “naming” significa creare un nome d’effetto per il proprio business o prodotto: esiste una branca del marketing costituita da esperti appositamente formati per trovare e/o coniare il nome perfetto per ogni brand. Fare in modo che risulti efficace e che “faccia vendere” potrebbe apparire relativamente semplice, ma il naming cela alcune insidie alle quali bisogna prestare attenzione.

La vera importanza del naming

Le fondamenta di un business di successo sono sostanzialmente riducibili a un buon nome e a una buona proposta commerciale.

Il nome costituisce il biglietto da visita dell’azienda: trovarne uno adeguato decreta il successo del brand in quanto lo andrà a inserire in una posizione di vantaggio all’interno della mente del consumatore.

Nell’immaginario comune, si è portati a pensare che un nome debba contenere necessariamente la descrizione del prodotto a cui è associato, o quantomeno evocarlo il più possibile.

Si tratta del falso mito del nome descrittivo, una trappola letale da scansare a tutti i costi.

Puntando sulla descrizione si rischia di finire inghiottiti dalla palude del marcato, ormai saturo di brand e prodotti tutti molto simili tra loro. Venire scambiati per la concorrenza, non considerati o addirittura dimenticati dal consumatore è di quanto peggio possa succedere a un marchio. Un nome descrittivo manca di personalità e originalità, due prerogative per catturare l’attenzione del cliente.

Tra gli anni ’60 e ’80 del XX secolo, questa strategia di naming ebbe un boom in quanto tantissime aziende stavano lanciando per la prima volta un determinato tipo di prodotto o servizio, ma al giorno d’oggi risulterebbe pressoché impossibile nominare un qualcosa rimanendo descrittivi e allo stesso tempo unici.

Facciamo l’esempio di un’azienda veneta produttrice di batterie elettriche, la Superpila, fondata nel lontano 1917. Tra gli anni ’60 e ’70, il marchio registrò una forte espansione, che poi andò scemando rapidamente negli anni ’80 con l’avvento di numerosi competitor internazionali, la cui brand identity era nettamente più forte.

Un nome così descrittivo come Superpila, per quanto diretto, semplice e chiaro, funzionò alla grande finché il mercato dava ancora la possibilità di respirare: con l’evoluzione delle dinamiche commerciali e la nascita di grandi multinazionali, un nome del genere è passato dell’essere esclusivo, a essere totalmente anonimo, data la sua natura comune e descrittiva. Superpila venne quindi inglobata dal gruppo Duracell Batteries, oggi colosso mondiale del settore.

Mosse per trovare il nome perfetto

È risaputo, il marketing è l’arte di saper vendere un prodotto creando a proprio piacimento la percezione dello stesso nella mente del consumatore. Al contrario, il managing di un’azienda consiste nella creazione di un brand di qualità, mantenendo intatta la lealtà tra filosofia, immagine e prodotto stesso.
Se chiedessimo a un manager di fare naming per la propria azienda, infatti, la sua mente analitica e lineare lo porterebbe senz’altro a optare per qualcosa di diretto e autodescrittivo, proprio come nel caso di Superpila, che è finito per trasformarsi in un claim poi utilizzato da altre centinaia di aziende senza troppi impedimenti.
Come non incappare nello stesso errore madornale? Vediamo insieme tutti i passi da seguire per denominare in maniera impeccabile il proprio prodotto, catturando l’attenzione del consumatore.

Denominare un prodotto o un brand non è semplice come si potrebbe pensare. Dietro a poche sillabe si nasconde un impegnativo lavoro di squadra di giorni e giorni.

Ancor prima di iniziare a buttare giù le prime idee, è necessario studiare a fondo la concorrenza per capire la composizione del mercato attuale e valutare la disponibilità e assonanza con altri marchi già esistenti.
Il secondo passo è realizzare un brainstorming completo, dal quale si trarranno tutti gli spunti per poi passare al vero e proprio lavoro di ricerca e composizione del nome.
Sappiamo che “l’abito non fa il monaco”, ma nell’ambito del marketing il nome gioca un ruolo fondamentale nella riuscita di un brand emergente.

-Il nome perfetto si trova a metà strada tra la semplicità e la facilità di memorizzazione, e la personalità data da un termine o un’associazione di termini nuova e/o insolita. Un nome troppo descrittivo viene spesso percepito come freddo e impersonale.

-La curiosità è ciò che determina la scelta di un brand a discapito di un altro. Il nome che stiamo valutando suona stimolante e accattivante alle orecchie di un potenziale cliente? Se la risposta è NI, meglio passare alla prossima proposta.

-Meglio non pensarlo eccessivamente arzigogolato, difficile da ricordare e pronunciare. La mossa vincente è verificare che possa essere facilmente pronunciato anche da madrelingua diversi e che non risulti sconveniente in altri idiomi.

-Giocare con doppisensi, allitterazioni e ossimori è un’ottima strategia per creare un nome originale e stimolante,

Lavorare con la fantasia è fondamentale, ma bisogna sempre tenere bene a mente quale siano l’identità e la mission del brand: la coerenza tra questi due aspetti viene prima di qualsiasi altra cosa.
Inoltre, i nomi completamente inventanti, pur avendo una marcia in più a livello di impatto, possono costituire un’arma a doppio taglio in quanto richiedono uno sforzo maggiore per essere associati a un determinato prodotto.

Ovviamente esistono eccezioni alla regola, a cui ci si può appellare quando le circostanze giocano a proprio favore.
Per esempio, se un brand affermato e conosciuto decide di introdurre una nuova categoria di prodotti o qualora i competitor avessero adottato a loro volta nomi banali e descrittivi.

In conclusione, non esiste una scienza esatta per l’individuazione del nome perfetto, l’importante è che il termine scelto strizzi l’occhio al futuro invece di rievocare tempi passati: si rischia un rapido decadimento del marchio come abbiamo visto con l’esempio sopracitato di Superpila.

Esempi di nomi che hanno fatto la storia

Nell’arco dell’ultimo secolo, sono stati diversi i brand a insediarsi con successo nella mente dei consumatori, grazie all’attuazione di alcune o tutte le strategie elencate in precedenza.

Prima fra tutte l’intramontabile Nutella, la crema spalmabile di casa Ferrero che nel 1964 abbandonò il precedente appellativo di “SuperCrema” (un perfetto esempio di nome descrittivo ma anonimo e impersonale), per virare verso uno dei sinonimi di globalizzazione del mondo moderno.

Tantissimi marchi, nei decenni successivi, hanno tentato la scalata alla vetta ma nessuno è mai stato in grado di spodestare la Nutella.

Un altro cambiamento più che riuscito riguarda la catena di supermercati Esselunga, pioniera della GDO in Italia: il primissimo punto vendita si chiamava semplicemente “Supermarket”.

Dopo 10 lunghi anni trascorsi sotto questo nome, grazie a un’iconica campagna pubblicitaria, la catena assume il nome di Esselunga, sbarazzandosi della possibilità di rimanere inghiottita dalla palude dei nomi simili e assonanti che si sarebbe manifestata da lì a poco tempo.

Altre aziende che hanno fatto dei loro nomi di fantasia un punto di forza sono Apple, Nike, Red Bull, Dove e Grey Goose.

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