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Quella del debranding è una strategia di marketing che si sta affermando sempre di più negli ultimi anni, e il trend non accenna a placarsi. Potrebbe diventare a tutti gli effetti la carta vincente per il marketing del futuro. Scopriamo di cosa si tratta.
Cos’è il debranding
Nonostante l’assonanza, il debranding non è da confondere con il noto termine “rebranding“. Mentre in questo caso ci riferiamo a una rivoluzione dell’immagine del marchio, con la parola debranding si intende l’eliminazione del nome del marchio da tutti i canali in cui è presente, partendo dal logo, allo slogan, al sito web. In italiano detta “decorporatizzazione“, questa strategia consiste nel rendere il logo del marchio più facile da approcciare per il grande pubblico. Viste le tendenze degli ultimi tempi ad andare sempre più verso un design minimalista, la scelta di eliminare il nome consente al marchio di aumentare la propria brand awareness in tutto il mondo senza necessità di alcuna parola scritta. Un’altra operazione legata al debranding è quella di accantonare sempre di più font stravaganti e unici, favorendo quelli più lineari ed essenziali.
Sono tanti i grandi marchi che a partire dalla scorsa decade hanno deciso di mettere in atto un debranding importante, primi fra tutti alcuni illustri nomi dell’alta moda quali Balenciaga, Burberry e Yves Saint Laurent che sono passati da un logo con carattere estroso a uno stile minimale e molto simile l’uno all’altro.
Si tratta di un trend che non sappiamo per quanto sarà destinato a durare, tuttavia se i principali esponenti di quest’industria, e di molte altre, l’hanno imboccata come strada, significa che la corrente minimalista non ha intenzione di fare marcia indietro da qui al prossimo decennio.
Il rischio più grosso del debranding è chiaramente la perdita di un’identità propria, facendo sprofondare il marchio nell’abisso dei competitor. Per questo esistono diversi parametri a cui attenersi per capire se la scelta del debranding faccia al caso nostro oppure no.
Quando fare debranding
Fare debranding al proprio marchio è una scelta audace, che richiede uno studio importante al fine di valutare tutte le variabili ed evitare il tracollo. Bisogna tenere in considerazione non soltanto l’età anagrafica dell’azienda, ma anche la sua maturità effettiva e soprattutto percettiva. Come sappiamo, è la percezione del cliente nel confronti del marchio a determinare il suo valore; se nell’immaginario collettivo il brand non è abbastanza forte e affermato, stravolgere il suo look per di più appiattendolo e rendendolo simile a tanti altri non farà altro che stroncare sul nascere qualsiasi possibilità di successo.
Possiamo contare su una personalità vera e propria, riconoscibile e distinguibile de tutte le altre realtà? Il consumatore conosce il marchio? In quale posizione della Piramide di Aaker si inserisce? Ci sono prospettive future solide e tangibili?
Sono queste le domande che bisognerebbe porsi prima di mettere in atto un debranding: in caso di risposte positive a tutti i quesiti, si è pronti per partire, tenendo sempre in considerazione che sì, copiare le strategie di marketing dei colossi del mercato spesso si rivela vincente, ma un solo passo falso può costare la vita all’intera azienda.
Da dove nasce il debranding
Il debranding, pur essendo considerata la strategia del futuro, nasce nella mente dei pubblicitari e dei responsabili marketing negli anni ’80, nel pieno dell’età dell’oro della Grande Distribuzione. Allora si notò che il consumatore, avendo davanti due o più prodotti dalle caratteristiche equivalenti tra di loro, tendeva a scegliere quello “sottomarca” a discapito del colosso del settore, sia nel campo alimentare, che per l’igiene della persona, e così via.
Questo perché, a prescindere dal prezzo leggermente più basso, il marchio meno conosciuto infondeva al consumatore una sensazione di maggior vicinanza, umanità e accessibilità. Nei confronti dei “big”, il pubblico nutriva una sorta di timore reverenziale che ha addirittura avuto il potere di invertire la rotta e incidere sulle vendite, perdendo contro i marchi concorrenti. Un’altra motivazione importante che spingeva il consumatore a compiere determinate scelte era la consapevolezza che i colossi dell’industria dovevano sostenere ingenti spese per le campagne pubblicitarie, e proprio da queste nascevano i sovrapprezzi rispetto alle marche meno conosciute.
In un momento di generale benessere della popolazione, in cui non esisteva l’impellente necessità di risparmiare sui beni primari, queste motivazioni hanno dato l’input a grandi marchi a rivedere la loro immagine partendo appunto dal logo.
Notiamo grandi cambiamenti per esempio nel simbolo di Starbucks, che con il tempo ha eliminato tutti i fronzoli e le scritte, per lasciare la scena all’inconfondibile sirena. O ancora il marchio di automobili tedesco Mercedes-Benz che, dopo essere partito con un logo alquanto complesso e costituito da diversi elementi, è giunto negli ultimi anni alla sua versione più snella e minimale, mantenendo soltanto la stella a tre punte riconosciuta in tutto il mondo.
Ultima ma non per importanza ricordiamo Nike che a metà degli anni ’90 scelse di eliminare il proprio logotipo, mantenendo solo l’iconico simbolo “swoosh“. Da allora la sua identità non solo non ne ha risentito, ma ha avuto il ruolo di vera apripista per un trend che in questo momento sta coinvolgendo tutti i maggiori esponenti del settore.