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Quella del debranding è una strategia di marketing che si sta affermando sempre di più negli ultimi anni, e il trend non accenna a placarsi. Potrebbe diventare a tutti gli effetti la carta vincente per il marketing del futuro. Scopriamo di cosa si tratta.

Cos’è il debranding

Nonostante l’assonanza, il debranding non è da confondere con il noto termine “rebranding“. Mentre in questo caso ci riferiamo a una rivoluzione dell’immagine del marchio, con la parola debranding si intende l’eliminazione del nome del marchio da tutti i canali in cui è presente, partendo dal logo, allo slogan, al sito web. In italiano detta “decorporatizzazione“, questa strategia consiste nel rendere il logo del marchio più facile da approcciare per il grande pubblico. Viste le tendenze degli ultimi tempi ad andare sempre più verso un design minimalista, la scelta di eliminare il nome consente al marchio di aumentare la propria brand awareness in tutto il mondo senza necessità di alcuna parola scritta. Un’altra operazione legata al debranding è quella di accantonare sempre di più font stravaganti e unici, favorendo quelli più lineari ed essenziali.

Sono tanti i grandi marchi che a partire dalla scorsa decade hanno deciso di mettere in atto un debranding importante, primi fra tutti alcuni illustri nomi dell’alta moda quali Balenciaga, Burberry e Yves Saint Laurent che sono passati da un logo con carattere estroso a uno stile minimale e molto simile l’uno all’altro.

Si tratta di un trend che non sappiamo per quanto sarà destinato a durare, tuttavia se i principali esponenti di quest’industria, e di molte altre, l’hanno imboccata come strada, significa che la corrente minimalista non ha intenzione di fare marcia indietro da qui al prossimo decennio.

Il rischio più grosso del debranding è chiaramente la perdita di un’identità propria, facendo sprofondare il marchio nell’abisso dei competitor. Per questo esistono diversi parametri a cui attenersi per capire se la scelta del debranding faccia al caso nostro oppure no.

Quando fare debranding

Fare debranding al proprio marchio è una scelta audace, che richiede uno studio importante al fine di valutare tutte le variabili ed evitare il tracollo. Bisogna tenere in considerazione non soltanto l’età anagrafica dell’azienda, ma anche la sua maturità effettiva e soprattutto percettiva. Come sappiamo, è la percezione del cliente nel confronti del marchio a determinare il suo valore; se nell’immaginario collettivo il brand non è abbastanza forte e affermato, stravolgere il suo look per di più appiattendolo e rendendolo simile a tanti altri non farà altro che stroncare sul nascere qualsiasi possibilità di successo.

Possiamo contare su una personalità vera e propria, riconoscibile e distinguibile de tutte le altre realtà? Il consumatore conosce il marchio? In quale posizione della Piramide di Aaker si inserisce? Ci sono prospettive future solide e tangibili?

Sono queste le domande che bisognerebbe porsi prima di mettere in atto un debranding: in caso di risposte positive a tutti i quesiti, si è pronti per partire, tenendo sempre in considerazione che sì, copiare le strategie di marketing dei colossi del mercato spesso si rivela vincente, ma un solo passo falso può costare la vita all’intera azienda.

Da dove nasce il debranding

Il debranding, pur essendo considerata la strategia del futuro, nasce nella mente dei pubblicitari e dei responsabili marketing negli anni ’80, nel pieno dell’età dell’oro della Grande Distribuzione. Allora si notò che il consumatore, avendo davanti due o più prodotti dalle caratteristiche equivalenti tra di loro, tendeva a scegliere quello “sottomarca” a discapito del colosso del settore, sia nel campo alimentare, che per l’igiene della persona, e così via.

Questo perché, a prescindere dal prezzo leggermente più basso, il marchio meno conosciuto infondeva al consumatore una sensazione di maggior vicinanza, umanità e accessibilità. Nei confronti dei “big”, il pubblico nutriva una sorta di timore reverenziale che ha addirittura avuto il potere di invertire la rotta e incidere sulle vendite, perdendo contro i marchi concorrenti. Un’altra motivazione importante che spingeva il consumatore a compiere determinate scelte era la consapevolezza che i colossi dell’industria dovevano sostenere ingenti spese per le campagne pubblicitarie, e proprio da queste nascevano i sovrapprezzi rispetto alle marche meno conosciute.

In un momento di generale benessere della popolazione, in cui non esisteva l’impellente necessità di risparmiare sui beni primari, queste motivazioni hanno dato l’input a grandi marchi a rivedere la loro immagine partendo appunto dal logo.

Notiamo grandi cambiamenti per esempio nel simbolo di Starbucks, che con il tempo ha eliminato tutti i fronzoli e le scritte, per lasciare la scena all’inconfondibile sirena. O ancora il marchio di automobili tedesco Mercedes-Benz che, dopo essere partito con un logo alquanto complesso e costituito da diversi elementi, è giunto negli ultimi anni alla sua versione più snella e minimale, mantenendo soltanto la stella a tre punte riconosciuta in tutto il mondo.

Ultima ma non per importanza ricordiamo Nike che a metà degli anni ’90 scelse di eliminare il proprio logotipo, mantenendo solo l’iconico simbolo “swoosh“. Da allora la sua identità non solo non ne ha risentito, ma ha avuto il ruolo di vera apripista per un trend che in questo momento sta coinvolgendo tutti i maggiori esponenti del settore. 

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Al fine di elaborare una strategia social vincente è necessario fare un passo indietro e focalizzarsi sul cosiddetto “posizionamento”, ovvero il modo in cui il determinato brand si colloca nella mente del pubblico target.

In questo articolo vedremo per quale motivo il posizionamento è determinante, e come elaborarlo in maniera ottimale.

Cos’è il posizionamento social

Tante aziende tendono a trattare le loro campagne social come semplici piattaforme volte all’intrattenimento, oppure come mere vetrine per inserzioni pubblicitarie.

In questo articolo vi avevamo spiegato come sfruttare le sponsorizzazioni  sui social media al fine di aumentare la popolarità del vostro marchio. 

A nostro avviso, nessuna di queste due direzioni sopracitate è del tutto vincente: una campagna social, per funzionare, ha bisogno di studio alle sue spalle, incentrato su diversi fattori molto importanti e intersecati tra di loro.

L’ideale è riuscire a fondere i due aspetti, in modo che la strategia di social media marketing abbia un ottimo impatto sia dal punto di vista emotivo che commerciale.

La base sulla quale si deve ergere il piano social è una personalità unica del marchio, che sappia distinguersi dal resto dei competitor, andando a proporre al pubblico target un prodotto/servizio inedito, o non ancora visto sotto quella determinata luce. La comunicazione in questo senso risulta ancora una volta fondamentale: non  basta certamente iniziare a postare contenuti sulle proprie pagine social per accertarsi il successo, anzi. Gli standard qualitativi sono sempre più elevati e la concorrenza spietata, senza considerare che il pubblico ha ormai tutti gli strumenti per poter valutare da solo l’impegno di un brand sulle piattaforme social, trattandosi di un tipo di comunicazione molto più personalizzata e diretta rispetto a quella tramite i media tradizionali.

Prima di tutto è necessario rendersi conto che non è possibile rivolgersi a tutto il mercato, ma soltanto a un settore o a una nicchia ben precisa. Individuata quest’ultima, è il momento di chiedersi cosa si voglia comunicare al pubblico target. La risposta a tale domanda costituirà il punto di partenza per l’elaborazione del proprio posizionamento social.

Perché è importante il posizionamento social

Al giorno d’oggi è impossibile per un’azienda sviluppare una strategia di marketing digitale senza destinarne una grossa fetta alla parte social. Questa branca del marketing online svolge un ruolo cruciale nello sviluppo della brand awareness, di cui avevamo parlato nel dettaglio in questo articolo. La brand awareness, ovvero la percezione che il pubblico ha del marchio, è fondamentale per determinare il valore dello stesso, e può essere misurata utilizzando la cosiddetta Piramide di Aaker, un sistema di valutazione ideato dall’omonimo economista all’inizio degli anni 2000.

All’interno della piramide troviamo diversi livelli, corrispondenti ai gradi di notorietà del marchio. Alla base troviamo il gradino “Unaware of brand”, quando un brand risulta totalmente sconosciuto al pubblico, mentre al vertice si trova la “TOM Awareness – Top of Mind“, quando un brand è il primo a essere ricordato dal pubblico tra tutti quelli del suo settore. Tale posizionamento è ciò a cui aspira qualsiasi azienda, perché significa aver superato tutti i competitor ed essere diventati i leader della propria categoria in termini di notorietà.

Capiamo bene che utilizzare i social con cognizione di causa, attuando una strategia ben ponderata e mirata, darà una grande mano affinché il traguardo della TOM Awareness venga raggiunto.

Come elaborare il giusto posizionamento sociali

Abbiamo capito che cos’è il posizionamento social e per quale motivo è così importante. Ora è giunto il momento di scoprire come elaborarlo al meglio. Per identificare il proprio target e di conseguenza stilare una strategia efficiente e suscitarne l’interesse, è necessario innanzitutto conoscere a fondo sé stessi, il marchio e le persone che ne fanno parte. Solo con la piena consapevolezza dei propri punti a favore, delle proprie debolezze, del proprio carattere e dei propri valori si avrà la capacità di attirare il pubblico giusto. Studiarsi è il primissimo passo da compiere verso la creazione di un piano social adeguato, poiché i contenuti dovranno essere in linea con abilità, personalità e filosofia del marchio.

Quali social predilige il pubblico target a cui mi voglio rivolgere? Anche questa è una domanda importante, poiché il pubblico cambia nettamente a seconda dei vari network.

Partendo dal presupposto che ogni piattaforma richiede un approccio diverso, e che ciò che va bene per Instagram quasi certamente non sarà l’ideale per Youtube, dobbiamo studiare accuratamente il panorama nel quale ci stiamo inserendo, per capire come sono posizionati i competitor, qual è il loro modo di esprimersi, che cosa desidera il pubblico e che cosa invece gli manca.

Stilare un vero e proprio identikit del target è una delle parti più importanti per la buona riuscita del posizionamento social: capendo a fondo il soggetto a cui ci stiamo rivolgendo, con le sue preferenze, abitudini, stili di vita, desideri manifesti e inespressi, saremo anche in grado di proporci esattamente come lui ha bisogno di percepirci, fornendo contenuti accattivanti e coinvolgenti.

Ultimo ma non per importanza resta il fattore dell’autenticità: in un mondo saturo in cui spiccare risulta sempre più difficile, l’unica vera arma resta essere sé stessi. Nessun altro potrà mai interpretare il nostro ruolo meglio di noi, perciò, se emulare le scelte di brand più affermati può costituire una strada per il successo, optare per il cammino dell’unicità conferirà a quest’ultimo un sapore ancor più gradito.

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Il marketing è una disciplina in continua evoluzione, di pari passo con gli avvenimenti sociali ed economici di un determinato paese. Saper attuare le giuste strategie, prendendo in considerazione i parametri necessari e sviluppando modelli consoni all’epoca e alle circostanze in cui ci si trova, significa essere già a metà dell’opera verso il successo del proprio marchio.

In questo articolo scopriremo le caratteristiche del cosiddetto marketing relazionale, la sua storia e come attuarlo nella maniera corretta.

Cos’è il marketing relazionale

Detto anche “relationship marketing” o “customer relationship management“, il marketing relazionale è un modello di comunicazione improntato sul soddisfacimento dei bisogni della propria clientela. L’obiettivo principale di questo approccio è, infatti, la fidelizzazione totale del cliente, insieme allo sviluppo e al consolidamento di un rapporto di reciproca fiducia tra le parti.

Mantenere un’ottima relazione con tutti gli stakeholder coinvolti, primi fra tutti i clienti, si pone come fulcro della strategia relazionale, che si plasma adattandosi ai loro desideri e alle loro richieste, soddisfacendoli e talvolta anticipandoli. Lo spirito di adattamento e la capacità di mutare rapidamente in base alle tendenze sociali e di mercato ricoprono un ruolo base nel modello di marketing relazionale, che riesce nel proprio intento grazie all’appoggio di sofisticate tecnologie e software che raccolgono ed elaborano enormi quantità di dati al fine di fornire risposte chiare e dettagliate circa la preferenze del pubblico.

Come abbiamo appurato in numerosi articoli, saper offrire all’interlocutore una soluzione concreta ai suoi problemi è in assoluto il focus principale di qualsivoglia campagna di marketing: a maggior ragione in un approccio di tipo relazionale, quest’offerta verrà realizzata in maniera dettagliata, personalizzata, indirizzandola a un target ben preciso andando a lanciare la propria comunicazione in un settore ristretto. Tale strategia di diffusione viene detta “narrowcasting“, in contrapposizione al celebre approccio “broadcasting“, ovvero di distribuzione di massa.

Il marketing relazionale, essendo bidirezionale, accoglie con piacere e incita l’interazione da parte del ricevente, denotando così una spiccata sensibilità e attenzione dell’azienda nei confronti del proprio consumatore.

L’utente può infatti rispondere, domandare, aprire un dialogo con la certezza di essere ascoltato e tenuto in considerazione: per queste ragioni, nel marketing relazionale si evidenziano diversi punti comuni con quello che è il marketing diretto.

Differenze tra marketing relazionale e marketing transazionale

Il modello del relationship marketing è andato via via consolidandosi con l’avvento di internet e delle piattaforme digitali. Prima del grande sviluppo tecnologico, l’approccio predominante della comunicazione prendeva il nome di “marketing transazionale“, ovvero quella strategia tradizionale improntata su fasi ben precise di ricerca, sviluppo e messa in atto della comunicazione.

In particolare, possiamo individuare:

1- Analisi del mercato

2- Segmentazione

3- Identificazione del target

4- Posizionamento dell’offerta

Sebbene tutte queste operazioni siano tuttora più che valide per la realizzazione di una corretta campagna di marketing, ciò che cambia è soprattutto l’obiettivo finale: la diffusione tradizionale prevedeva un approccio aggressivo, essendo rivolta a un pubblico di massa. Per farlo sfruttava televisione, radio, giornali, volantini e affissioni, con l’unico scopo di indirizzare l’ampio target verso la finalizzazione di un acquisto. In tutti i suddetti casi, il destinatario restava passivo, senza la possibilità di interagire con il mittente per esprimere il proprio feedback né fargli sapere di che cosa avesse realmente bisogno.

Nel marketing relazionale, invece, si pone grandissima attenzione verso i desideri e le richieste del cliente, coltivando il rapporto tra le due parti e impiegando tutte le risorse possibili per la sua ottimizzazione.

Un cliente soddisfatto costituisce un immenso tesoro per l’impresa, che può così contare su un passaparola positivo, una minor considerazione della concorrenza e una più alta propensione verso un nuovo acquisto dei prodotti del brand.

Sebbene sia impossibile stabilire una data di nascita dell’approccio relazionale, è comunque facile individuare le sue origini negli anni ’30 a seguito della grande depressione, quando le imprese dovettero ricominciare da zero per guadagnare la fiducia del cliente dopo la crisi.

Strategie per attuare il Marketing Relazionale

Instaurare e mantenere un ottimo rapporto con la nostra clientela ci consente, di riflesso, di ottenere in cambio una maggior fiducia nei confronti del brand e una maggior conversione delle interazioni in vendite.

L’approccio relazionale è più umano, più empatico, più vicino all’interlocutore: invece di rivolgersi a lui con un messaggio destinato a centinaia di migliaia di persone, seleziona una comunicazione specifica che lo fa sentire automaticamente ascoltato, compreso e speciale.

Un messaggio prettamente commerciale, improntato soltanto sulla conclusione di una vendita, non ha possibilità di riuscita in un mondo dove non è più tanto il prodotto ad attirare l’attenzione, quanto la storia che vi sta dietro, le circostanze da cui è nato e le personalità che lo hanno portato alla luce.

Il nostro consiglio è, pertanto, quello di prendersi del tempo per raccontare il proprio marchio evidenziando la filosofia e il concept sui quali si erge, senza spostare immediatamente tutto il focus sul mero prodotto o servizio che si sta tentando di vendere: in questo modo il cliente potrebbe percepirci come freddi, impersonali e disinteressati. Per farlo è possibile adottare strategie di storytelling e visual storytelling, come abbiamo evidenziato in questo articolo.

Se il marketing transazionale mira a ottenere successo sul breve termine, invogliando il consumatore grazie ai potenti messaggi pubblicitari, il marketing relazionale si pone come obiettivo la riuscita sul lungo termine, grazie alla fidelizzazione del pubblico ottenuta tramite il suo ascolto e il suo soddisfacimento.

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Fare storytelling significa raccontare il proprio marchio servendosi di una storia avvincente, emotiva e coinvolgente in cui i consumatori possano indentificarsi.

Avevamo già visto tutte le caratteristiche di questa strategia di marketing qui, oggi invece andremo a scoprire in che cosa consiste il visual storytelling, ovvero l’arte di raccontare una storia tramite le immagini.

Cos’è il visual storytelling e quali sono le sue caratteristiche

Raccontare una storia servendoci soltanto di parole scritte o narrate può catturare l’attenzione, ma mai tanto quanto mostrarla tramite immagini e filmati. Questi ultimi, infatti, sono in grado di suscitare ancora più reazioni ed emozioni immediate, basti pensare alla differenza di impatto di un film commovente rispetto a un libro che racconti la medesima vicenda.

Nell’era digitale, servirsi di immagini, filmati e grafiche non è mai stato tanto semplice e proficuo: grazie ai social media come strumento di marketing, è possibile sviluppare una strategia di cosiddetto visual storytelling che faccia leva sul bisogno innato dell’uomo di farsi narratore e a sua volta spettatore di una storia.

È la psicologia, infatti, a individuare nell’essere umano la necessità di riorganizzare le proprie memorie ed esperienze in una storia articolata e coerente da esternare all’interlocutore. Sfruttando lo stesso principio, il visual storytelling consente di riconoscersi nel racconto di un brand, nel suo contesto di creazione e nelle persone che lo hanno reso possibile.

Farsi spettatori di una storia narrata non soltanto a parole ma tramite immagini evoca un forte legame con l’infanzia e i ricordi più profondi: la comunicazione svolta in questo modo è più diretta, immediata ed emotiva, oltre a essere più facile da elaborare e condividere. Proprio questa è la chiave di una buona strategia di marketing attuata sui social media: la sua efficacia viene misurata nel numero di condivisioni ottenute da parte degli utenti, e quanto più si potranno immedesimare in essa tanto più alto sarà l’engagement ottenuto.

Al giorno d’oggi sono essenzialmente due le piattaforme di spicco per la messa in pratica del visual storytelling: i colossi Instagram e Pinterest. Entrambi basati sulla condivisione di immagini, rendendo marginale l’uso del testo, hanno però target e obiettivi differenti.

Pinterest si conferma oggigiorno come il miglior social network per traffico di referral link: navigando nelle sue infinite categorie e bacheche è possibile trovare pressoché qualunque prodotto o servizio, per poi venire reindirizzati al sito ufficiale da cui l’immagine è stata presa inizialmente, per concludere l’acquisto. Secondo calcoli recenti, il traffico di referral link generato da Pinterest supera quello di piattaforme come Youtube, Linkedin e Google+ messe insieme. Avevamo parlato dei programmi di affiliazione come fonte di guadagno a lungo termine in questo articolo.

Per quanto riguarda Instagram, invece, la presenza di link di affiliazione è molto più discreta, in quanto possono venire veicolati soltanto da uno dei diversi strumenti dell’app, ossia le Stories. Si tratta tuttavia del social network con il maggior numero di utenti, che si aggirano attorno al miliardo e in continua crescita. Su Instagram, l’engagment generato è ai massimi storici, calcolato sulla base di visualizzazioni, interazioni e condivisioni tra gli utenti.

Qui, inoltre, hanno un grande successo le ADV, che vengono realizzate da influencer e microinfluencer in maniera spontanea e personalizzata, in modo che gli utenti si identifichino con il brand senza sentirsi forzati.

Obiettivi del visual storytelling

L’obiettivo del visual storytelling è la narrazione di una storia incentrata sul brand e sui suoi valori, che possa rimandare al vissuto degli utenti, rievocare in loro esperienze e memorie passate e stabilire tra i due interlocutori una connessione empatica e di reciproca fiducia.

Grazie a questo legame saremo in grado di aumentare la brand awareness del marchio, facendo in modo che il pubblico si ricordi di noi, della nostra immagine, del nostro obiettivo e, chiaramente, del nostro prodotto. Avevamo visto in questo articolo tutte le migliori strategie per aumentare la brand awareness in maniera efficace.

Per riuscire in questo obiettivo è necessario seguire dei passi ben precisi e non lasciare nulla al caso: l’individuazione del target è di fondamentale importanza perché ci consente di designare il perfetto destinatario del nostro messaggio. In secondo luogo, dovremo occuparci della realizzazione di contenuti unici, originali e qualitativamente elevati, che possano catturare l’attenzione e stupire l’utente.

Utilizzare ed evocare esperienze dirette delle persone, rendendole portavoce e ambasciatrici del marchio del quale, così facendo, verrà evidenziato il lato umano, è un’altra mossa vincente che ci avvicina sempre di più alla riuscita della nostra campagna di visual storytelling.

Ultimo, ma non per importanza, è il riconoscimento di un problema specifico del pubblico, al quale si andrà a fornire una soluzione tramite il prodotto o servizio venduto: questo passo è imprescindibile non solo nei visual storytelling ma in ogni campagna di marketing che si rispetti.

Come fare visual storytelling

Abbiamo visto le ragioni e gli obiettivi che stanno alle spalle di una campagna di visual storytelling. Ma come possiamo crearla in maniera concreta? Certo, avere a disposizione grafici e videomaker può semplificare di gran lunga le cose ma, nel caso di un’azienda appena nata e ancora in via d’espansione, può essere necessario trovare soluzioni alternative senza ricorrere a figure professionali che svolgano per noi l’arduo compito.

Esistono piattaforme online molto famose e gettonate, con le quali è possibile realizzare video, infografiche, stories e immagini senza dover per forza utilizzare complicati software ed essere in possesso di una laurea in merito.

Il più famoso tra questi è senza dubbio Canva, che offre l’opzione gratuita con un numero di features limitate, oppure quella a pagamento tramite la quale si può accedere a tutti i template, font e immagini disponibili.

Dopo aver creato le immagini e i video, è ora di postarli sui social network, avendo cura, specialmente su Instagram, di conservare un’identità visiva ben definita, in modo da non distrarre l’utente dal messaggio che vogliamo veicolare. Se per esempio il nostro brand parlasse di caffé, il suggerimento è quello di mantenere tutti i post in linea con questa tematica, andando a toccare ambiti disparati ma coerenti con il prodotto venduto. Nel caso si volesse trattare sporadicamente di altri argomenti, è possibile farlo senza compromettere l’ordine del feed, andando a pubblicare, per esempio, nelle stories.

Affinché la nostra strategia funzioni, oltre all’intervento da parte nostra, avremo bisogno anche di tanta partecipazione da parte dei follower: per favorirla, dovremo assicurarci di rispondere a tutti i commenti e le domande, repostare i contenuti in cui siamo stati taggati, coinvolgerli tramite call to action mirate e pertinenti con le pubblicazioni effettuate e invitarli all’utilizzo di hashtag personalizzati in modo che la nostra storia possa diventare virale.

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Negli ultimi trent’anni, il modo di fare acquisti è stato totalmente trasformato a causa dell’avvento di internet e dell’e-commerce.

Con questo termine si indicano non solo tutte le transazioni effettuate sul web, ma anche le operazioni che intercorrono prima e dopo la vendita per supportarla e assisterla.

In questo articolo capiremo quali siano le sottocategorie dell’e-commerce e le migliori strategie per vendere online.

Differenza tra ecommerce diretto e indiretto e i modelli al loro interno

L’e-commerce può essere suddiviso in due branche ben distinte tra loro, a seconda della tipologia di bene commercializzato.

Il cosiddetto “e-commerce diretto” o “online e-business” è quello che si occupa della vendita di beni non materiali ma virtuali: in questo caso il prodotto acquistato non ha bisogno di essere trasferito materialmente nelle mani dell’acquirente, ma egli può entrarne immediatamente in possesso grazie, per esempio, a un download o a un’email ricevuta.

Al contrario, l'”e-commerce indiretto” o “offline e-business” tratta tutti quei beni materiali che necessitano di spedizione e trasporto per raggiungere colui che li ha acquistati via internet.

Entrambi questi due modelli possono a loro volta essere classificati in base al rapporto che sussiste tra le due parti, quella venditrice e quella acquirente.

Il commercio B2B (business to business) si instaura tra due imprese, solitamente appartenenti al medesimo settore ma occupanti due posti della catena produttiva ben diversi: per esempio, un’azienda produttrice di biscotti acquisterà da un’azienda specializzata nella lavorazione del cioccolato le gocce necessarie per guarnire i propri dolci.

Quando parliamo di B2C (business to consumer) invece ci riferiamo al classico modello di acquisto online, nel quale un cliente privato accede a un negozio virtuale per comprare la merce di cui ha bisogno. L’impiego di una piattaforma che simuli virtualmente la struttura di un negozio, servendosi di strumenti come il carrello e la raccolta e lo studio dei dati dei propri clienti, viene chiamata “storefront model“.

Ultima, ma non per importanza, troviamo la modalità C2C ovvero consumer to consumer. In questo caso, i clienti occupano entrambe le parti della transazione, che avvengono su piattaforme il cui compito è soltanto di ospitarle e attuare da intermediario. La tipologia più conosciuta di commercio C2C è quella a base d’asta (auction model), dove vengono inseriti beni con un prezzo di partenza, e la vendita verrà aggiudicata dall’acquirente che abbia offerto di più e più velocemente rispetto agli altri interessati.

Strategie per far funzionare l’ecommerce: newsletter e DEM

Come anticipato precedentemente, il mondo dell’e-commerce non si sviluppa soltanto nelle singole transazioni di vendita e acquisto, ma va affiancato anche da strategie commerciali e di marketing ben precise per farlo funzionare al meglio.

La mera esistenza di un sito web che proponga beni materiali o immateriali non è sufficiente a garantire le vendite, né tantomeno alla creazione di una clientela fidelizzata. Qui entra in campo il marketing proponendo diverse soluzioni da sfruttare singolarmente o in combinazione per ottimizzare i risultati online.

La newsletter è uno degli strumenti più popolari e sfruttati, che consiste nell’invio massivo di email contenenti informazioni sul proprio prodotto, inviti, offerte e sconti, al fine di consolidare il rapporto tra le parti e mantenere alto l’interesse dei consumatori.

Come abbiamo visto in questo articolo, per trarre grossi vantaggi dall’utilizzo della newsletter, è necessario redigerla in maniera accurata, seguendo linee guida che ne determineranno la riuscita.

Un’altra tipologia di comunicazione via mail in grado di supportare e ottimizzare la resa dell’e-commerce è la cosiddetta DEM (direct email marketing), che differisce dalla newsletter principalmente per l’obiettivo che si prefigge, che in questo caso è prettamente la conversione delle aperture nel più alto numero di acquisti o sottoscrizioni possibili.

Marketing di affiliazione per pubblicizzare la propria attività di ecommerce

Lo avevamo anticipato in questo articolo di approfondimento: l’affiliazione è una strategia win-win che consente alle imprese di ampliare la propria portata, servendosi del supporto dei clienti.

Questi ultimi si convertono in veri microinfluencer che, condividendo esperienze, pareri e recensioni sui prodotti e allegandovi il link diretto per l’acquisto, possono guadagnare una percentuale sul venduto.

Si tratta quindi di un sistema di rendita passiva molto apprezzato in quanto detiene il potenziale per trasformarsi in una vera professione quando sfruttato a dovere. Sono tantissime le piattaforme che si occupano di affiliazioni, sulla quali ci si può iscrivere in pochi clic, scegliere le categorie di interesse e iniziare a guadagnare semplicemente condividendo i link tracciabili con amici, conoscenti e contatti social.

Il marketing di affiliazione va a braccetto con le tecniche viste in precedenza, legate all’email marketing: questo perché i link affiliati possono e dovrebbero essere diffusi sfruttando l’immensa portata delle newsletter.

Quello dell’affiliate marketing è un mondo che va approcciato con determinazione e pazienza, in quanto non si tratta di una soluzione per fare soldi facili e veloci, quanto più un investimento per il futuro, in grado di dare grandi soddisfazioni soprattutto sul lungo termine.

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La newsletter è uno strumento di fondamentale importanza per chiunque desideri implementare la propria attività attraverso l’email marketing.

Questo tipo di comunicazione si basa su principi ben precisi che, quando studiati e rispettati a dovere, portano a risultati sicuri e preziosi per l’azienda.

Scopriamo quindi tutte le caratteristiche di una buona newsletter e come fare per scriverla.

Cos’è la newsletter

Con newsletter si identifica un messaggio inviato tramite servizio di posta elettronica a tutti quegli utenti che hanno espresso la volontà di ricevere notizie e aggiornamenti da parte del nostro marchio.

Nonostante la miriade di altre forme tramite le quali, al giorno d’oggi, possiamo inviare e ricevere notifiche, la mail resta comunque quella più comune e apprezzata dalla maggior parte della popolazione in quanto personale e personalizzabile, e che consente al ricevente di mantenere il totale controllo sui messaggi in arrivo.

Il grande vantaggio della newsletter è, infatti, che l’utente si iscrive di propria spontanea volontà al servizio, dimostrando già un notevole interesse nei nostri confronti. Allo stesso modo, è libero di disiscrivesi in qualunque momento qualora le mail ricevute non fossero più di suo gradimento.

Rimane perciò imprescindibile creare contenuti accattivanti e di grande impatto, in modo da tenere alta l’attenzione e la curiosità degli iscritti.

La lista di coloro che hanno sottoscritto la newsletter ha un valore inestimabile in quanto permette di mantenere un contatto costante tra azienda e potenziali clienti, nutrendo e consolidando via via il rapporto. Inoltre, anche nel caso le circostanze esterne dovessero mutare e non si potesse più fare affidamento su altri sistemi per comunicare con la propria clientela, il database da noi creato con tutti i contatti raccolti rimarrà immutato e sempre a nostra disposizione.

L’iscrizione alla newsletter può avvenire semplicemente tramite un pop up visibile durante la navigazione sul sito, tramite un form da compilare, oppure essere incentivata da un regalo: spesso le aziende donano uno sconto, un buono o un periodo di prova gratuito al fronte della sottoscrizione alla propria newsletter.

Gli obiettivi e le caratteristiche di una buona newsletter

La newsletter tradizionale ha come main purpose l’aumento della fidelizzazione della clientela: si forniscono loro nuove e interessanti informazioni sul prodotto o servizio offerto, così come promozioni esclusive e personalizzate.

Per funzionare, la newsletter necessita di uno studio adeguato alle sue spalle; in questa strategia di marketing più che in altre, non si può di certo affidarsi al caso o puntare il tutto per tutto sulla legge dei grandi numeri.

Bisognerà infatti perfezionare sempre di più il proprio sistema, in modo che si rivolga a un pubblico ben segmentato che possa convertire facilmente le call to ation in azioni portate a termine.

Le newsletter non sono tutte uguali, e nonostante il loro intento rimanga il medesimo, strutturalmente possono differire molto: alcune sono più incentrate su una grafica accattivante, che faccia storytelling da sé, con poco testo ma molto incisivo, mentre un altro stile è quello che predilige immagini semplici ma descrizioni più accurate e dettagliate.

Come accennato in precedenza, la newsletter non solo consegna informazioni, sconti e offerte nelle mani dell’utente, ma svolge anche una funzione di cosiddetto “lead nurturing” ovvero accompagnare i lettori verso la loro prima interazione nei confronti dell’azienda, dunque a trasformarli nel tempo da semplici riceventi passivi a veri clienti attivi del nostro marchio.

Uno degli aspetti più importanti nella creazione di una buona newsletter è senza dubbio l’oggetto, ovvero il breve testo con il quale si andrà a descrivere il contenuto della mail in modo che il maggior numero di iscritti sia propenso ad aprirla.

Deve senz’altro essere breve e sintetico, ma racchiudere perfettamente tutto il succo di ciò che si vuole trasmettere senza trarre in inganno il lettore. Deve essere un oggetto semplice da leggere e adattarsi perfettamente a tutti i device di apertura, sia mobile, che web che tablet. L’utilizzo delle emoji può rivelarsi molto proficuo per rendere il contenuto più accattivante e a esprimere con ulteriore facilità il concetto.

Ultimo ma non per importanza, bisogna assicurarsi che le parole contenute nell’oggetto non vengano intercettate come spam, onde evitare la penalizzazione dell’intera campagna.

Piattaforme per inviare le newsletter e differenza con la DEM

La newsletter non può di certo essere inviata da una normale casella di posta elettronica: esistono tantissime piattaforme professionali delle quali avvalersi per inviare le comunicazioni ai propri iscritti.

Oltre a poter organizzare in maniera schematica i dati raccolti, questi software consentono anche di monitorare dettagliatamente i risultati delle campagne, in modo da affinare via via sempre di più le impostazioni e ottenere un successo assicurato.

In particolare, è possibile tenere sotto controllo l’open rate, ovvero le aperture uniche, il click through rate, ovvero i click sui link presenti all’interno delle mail, e il dato più importante, ovvero il conversion rate che misura il numero di click che hanno portato all’azione preposta (per esempio un acquisto, un download, una compilazione di un form).

Le piattaforme per la redazione delle newsletter hanno un costo tutto sommato contenuto e abbordabile anche per le piccole realtà. Le più famose e utilizzate al momento sono Mailchimp, Mailup, Sendblaster, Tinyletter e Getresponse.

La newsletter come tipologia di comunicazione può talvolta venire confusa con la cosiddetta DEM (direct email marketing): si tratta anche in questo caso di una mail, inviata però molto più di rado rispetto a una frequenza settimanale o plurisettimanale della newsletter. La DEM ha uno scopo prettamente commerciale e diretto, volto alla conversione delle aperture in completamento delle azioni prefissate.

Solitamente hanno una struttura a impatto grafico molto accattivante, studiate nei minimi dettagli per suscitare emozioni e coinvolgere il lettore. Le DEM valorizzano molto di più l’immagine a discapito di un testo più marginale e riassuntivo.

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Non c’è davvero un limite alle opportunità e agli sbocchi che il web offre. Tra questi, il marketing di affiliazione assume una posizione dispicco in quanto dà la possibilità di generare rendite passive tramite la condivisione di link tracciati.

Curiosi di scoprirne di più? Siete nel posto giusto.

Cos’è e in cosa consiste l’affiliate marketing

Quando parliamo di marketing di affiliazione facciamo riferimento a una strategia di marketing che prevede il coinvolgimento di affiliati e inserzionisti. I primi, detti anche publisher, sono utenti singoli, privati, influencer e microinfluencer che desiderino arrotondare il proprio stipendio generando un’ulteriore entrata mensile passiva. Gli inserzionisti, detti anche advertiser, possono essere imprese, siti web, ma anche startup e singoli individui accomunati da un unico fattore: la necessità di vendere qualcosa.

Ecco che il potenziale di coinvolgimento dei singoli utenti diventa prezioso per gli inserzionisti, che daranno loro la possibilità di pubblicizzare il proprio prodotto e retribuendoli con una percentuale sul venduto a transazione ultimata, se portata a termine utilizzando i link tracciati che citavamo in precedenza.

Le persone si trasformano sostanzialmente in micro influencer, aumentando la visibilità del marchio mentre generano un’entrata passiva per sé stessi: una situazione win-win in grado di fruttare tantissimo se organizzata a dovere.

Scegliendo di investire il proprio tempo nell’affiliate marketing si è consapevoli, tuttavia, che non si tratta di una soluzione per fare tanti soldi in breve tempo, quanto più di una strategia che darà grosse soddisfazioni sul lungo termine.

C’è infatti chi riesce a trasformare il marketing di affiliazione in un vero e proprio lavoro: le aziende hanno bisogno di figure capaci di vendere in maniera accattivante i propri prodotti, quindi avere spirito d’iniziativa, carisma e intraprendenza sono tutte qualità necessarie per il publisher che si stia inserendo in questo mondo.

Più si è bravi a influenzare amici, conoscenti, o il proprio pubblico a finalizzare gli acquisti, più si converte e più si guadagna. A primo impatto potrebbe sembrare un gioco da ragazzi, ma per eccellere nell’affiliate marketing sono necessarie molta dedizione e passione.

A funzionare meglio sono, infatti, i publisher che si dimostrino veramente coinvolti e interessati ai prodotti pubblicizzati, in quanto il pubblico è in grado di carpire quando una pubblicità è fine a sé stessa e quando invece è mossa da un’opinione positiva reale nei riguardi del dato prodotto o servizio.

Per partire, bisogna innanzitutto scegliere una o più nicchie di mercato, tenendo in considerazione appunto i propri interessi e propensioni.

Le nicchie più affollate di publisher potrebbero, anzi saranno sicuramente, quelle con le maggiori percentuali di guadagno sui link affiliati ma, proprio a causa di un sovraffollamento potrebbe essere più difficile convertire in acquisti.

Al contrario, una nicchia con percentuali leggermente più bassa ma ancora non gremita potrebbe offrire maggiore possibilità di successo al publisher che desideri inserirsi.

Dopo aver decretato il settore, è il momento di generare i link tracciabili e condividerli sulle varie piattaforme, dai social, alle app di messaggistica, ai blog e siti web.

I diversi programmi di affiliazione

Non c’è soltanto una maniera di guadagnare tramite l’affiliate marketing, ma molteplici: a seconda del contratto e delle condizioni proposte dalla piattaforma alla quale ci si iscrive, è possibile monetizzare:

Per click: una percentuale viene riconosciuta al publisher a ogni click ottenuto tramite il suo link

Per lead: ovvero per tutti i contatti raccolti e le iscrizioni guadagnate attraverso il link affiliato

Per impression: in questo caso vengono monetizzate le visualizzazioni ottenute con il link del publisher

Le piattaforme più famose e ambite sulle quali è possibile partecipare a programmi di affiliazione sono per esempio iTunes, Ebay e Amazon. Chiunque vi si può iscrivere in quanto la procedura di applicazione è davvero semplice e intuitiva.

Dopo averlo fatto, è necessario iniziare a condividere i link generati sfruttando tutte le risorse a propria disposizione.

Innanzitutto, se si ha un seguito discreto sui social network, è consigliabile partire proprio da qui: Instagram, Facebook, Youtube, Pinterest e TikTok sono ottimi riferimenti per chi fa parte del mondo dell’affiliate marketing.

Un secondo metodo è quello della condivisione tramite app di messaggistica quali Whatsapp, Telegram e Messenger: in questo modo si raggiungeranno tutti i propri contatti e li si inviterà a visionare il determinato prodotto o servizio da noi raccomandato.

Un altro metodo, più impegnativo ma sicuramente soddisfacente sul lungo termine, è l’utilizzo di blog e siti dedicati nei quali inserire i link affiliati: si tratta di una soluzione che richiede molta pianificazione e molto impegno ma, una volta avviata l’attività, è in grado di generare vendite esorbitanti.

Ultima, ma non per importanza, è la diffusione dei link affiliati tramite newsletter e direct email marketing: anche in questo caso abbiamo di fronte un sistema complesso da studiare e da gestire, ma che darà i suoi frutti non appena appreso come sfruttarlo.

Monetizzare con le affiliazioni Amazon

Come anticipato, Amazon è una delle piattaforme più favorevoli all’inizio di un’attività di affiliate marketing. Innanzitutto, l’iscrizione è davvero semplice, intuitiva e aperta a tutti. Trattandosi di una rivendita delle più svariate categorie merceologiche, si ha la possibilità di fare affiliate marketing sui prodotti più disparati. Nella pagina ufficiale dedicata alle affiliazioni, Amazon indica per filo e per segno tutte le diverse percentuali di guadagno che spettano al publisher a seconda del settore che andrà a scegliere.

Tra le più profittevoli troviamo Fitness, Bellezza, Salute, Hobby, ma è da tenere in considerazione che ambiti di questo genere potrebbero già essere saturi di altri publisher con programmi di condivisione già avviati e di successo. Meglio optare quindi per nicchie ristrette e ancora poco conosciute, per catalizzare tutta l’attenzione dei loro avventori.

Il bello di Amazon è che consente di guadagnare anche tramite i cosiddetti “bounty“, ovvero benefici complementari che spettano agli affiliati: a ogni sottoscrizione tramite link di servizi annuali come Prime, Music Unlimited o Prime Business, l’advertiser riconoscerà all’affiliato una somma predeterminata che si andrà a sommare alle percentuali ottenute dalla vendita di singoli prodotti.

Sicuramente vi avremo invogliato a dare una possibilità al marketing di affiliazione, tanto osannato sul web: per noi è una strategia vincente, ma ricordate che nulla è regalato e che il successo viene determinato dall’impegno e dalla perseveranza che si metteranno nel condurre la propria attività.

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Creatigroup

Quella dell’email marketing è una strategia che le aziende adottano principalmente per tre motivi: aumentare le interazioni con gli stakeholder, fidelizzare la clientela e convertire in breve tempo visite e acquisti sul proprio sito web. Come ogni iniziativa nel campo del marketing, va studiata e realizzata tenendo conto di parametri ben precisi se si vuole ottenere successo e poterla sfruttare sul lungo termine.

Vediamo quindi le caratteristiche dell’email marketing e il suo funzionamento.

In che cosa consiste l’email marketing

Sinteticamente, l’email marketing può essere definito come l‘invio di comunicazioni e promozioni tramite l’utilizzo di posta elettronica. Le aziende si mantengono così in contatto con i potenziali clienti, oltre che con partner, fornitori e altri stakeholder di riferimento, dei quali avevano precedentemente ottenuto l’indirizzo di posta elettronica, in modo da mantenerli al corrente di novità, promozioni e offerte lancio. Ottenere il consenso da parte dei riceventi all’iscrizione al servizio è utile a riscontrare un tasso di apertura maggiore delle mail inviate.

Questo canale di comunicazione solitamente piace ai consumatori, che avvertono un senso di esclusività e di immediatezza nel contatto e nell’interazione con i propri brand preferiti.

Gli indirizzi dei potenziali clienti possono essere raccolti seguendo diverse stratagemmi, dal classico pop up, ai moduli di iscrizione online e cartacei presso i punti vendita o le attività commerciali, post organici e sponsorizzazioni. Tutti questi punti di accesso, definiti per l’appunto “entry point“, sono fondamentali e vanno scelti con attenzione in quanto un buon database di indirizzi email consentirà all’azienda di raggiungere innumerevoli utenti con un alto interesse nei confronti del proprio prodotto o servizio.

Se per alcuni potrebbe valere la legge dei grandi numeri, il nostro consiglio quando si parla di email marketing è che la qualità supera per importanza la quantità: avere tanti contatti a cui inviare le comunicazioni può rivelarsi inutile se i destinatari non sono minimamente interessati a ciò di cui si sta parlando. Per questo una segmentazione ben definita e studiata e un targeting attento portano a un engagement alto e costante.

Per redigere delle email impattanti che attirino e mantengano l’attenzione dei lettori bisogna tenere in considerazione diversi fattori: l’accessibilità da multidispositivo fa sì che si possa visualizzare il messaggio da qualsiasi device, che sia smartphone, pc o tablet. Inoltre, la scelta di orari specifici basati su analisi dedicate al proprio target manterrà la percentuale di aperture uniche in positivo, mentre l’invio a cadenza regolare non troppo ravvicinata eviterà che il ricevente si senta sotto pressione e possa addirittura procedere con la disiscrizione dal servizio.

Un campagna di email marketing troppo aggressiva e assillante, infatti, porterà con tutta probabilità alla perdita di utenti, ma attenzione anche una comunicazione troppo diradata nel tempo: in questo modo gli iscritti si potrebbero sentire “abbandonati”, non più in contatto con l’azienda, e addirittura dimenticarsi totalmente di un dato prodotto o servizio.

Differenza tra Direct Email Marketing e Newsletter

Non tutte le email inviate a scopo pubblicitario possono definirsi newsletter. Bisogna infatti distinguere questo tipo di comunicazione con il Direct Email Marketing (DEM) sulla base delle loro caratteristiche di realizzazione.

Mentre la newsletter viene inviata a cadenza regolare per tenere aggiornati gli utenti con informazioni settimanali o addirittura giornaliere sul brand, le DEM sono comunicazioni occasionali e molto più esclusive. Le loro grafiche sono infatti studiate ad hoc con colori e template accattivanti e una o più call to action estremamente intriganti. Le newsletter, invece, si basano solitamente su layout preimpostati e uguali tra di loro, nei quali vengono inseriti testo e immagini, e ma talvolta anche solo informazioni scritte.

In entrambi i casi, il fattore determinante è la personalizzazione del contenuto: più si riesce a comunicare con l’utente tenendo in stretta considerazione le sue preferenze, attitudini, comportamenti e caratteristiche, e più riusciremo a mantenere la sua attenzione e a convertirla in acquisti sul sito web.

Sia nel caso delle DEM che in quello delle newsletter, il ricevente non può rispondere alla posta, ma i nuovi sistemi di email marketing forniscono ormai d’abitudine indirizzi alternativi ai quali gli utenti possono rivolgersi in caso di perplessità e domande. In questo modo, la comunicazione non è univoca, ma dà voce al potenziale acquirente.

Inserirsi nel mondo dell’email marketing è un passo imprescindibile per le aziende che vogliano aumentare le interazioni con gli utenti e convertire in maniera rapida e diretta. Per questo esistono delle piattaforme dedicate che i brand possono sfruttare per mettere in piedi la propria campagna di email marketing, appoggiandosi a tool analitici e funzionalità insight che permettano di monitorarne l’andamento.

Una delle più famose oltre che semplici da utilizzare è Mailup.

Le metriche per monitorare l’email marketing

Come anticipato, ci sono diversi parametri che determinano la riuscita di una buona campagna di email marketing.

Il CTR (click through rate) è la percentuale di destinatari che clicca su un determinato contenuto o link presente nella mail.

Il CTOR (click to open rate) è il totale degli utenti che hanno cliccato su un determinato link in rapporto a tutti coloro che hanno aperto la mail almeno una volta.

La conversion rate è la percentuale dei riceventi che cliccano e completano un’azione tramite l’email, sia questo un download, una sottoscrizione o un acquisto.

La bounce rate è il tasso di email inviate ma non recapitate a causa indirizzi errati o inesistenti.

Il UOR (unique open rate) corrisponde al numero di aperture uniche della mail.

il REC (tasso di recapito) si riferisce alla capacità delle mail di essere recapitate senza incappare in ban o deviazioni a causa dei server.

L‘email sharing è la condivisione del contenuto da parte dei riceventi con altri contatti.

Il tasso di unsubscribe, il più temuto dalle aziende, si alza soprattutto in relazione alla saturazione del mercato e all’incapacità del marchio di suscitare interesse nei lettori.

Dopo aver acquisito queste conoscenze di base e aver scelto una piattaforma dedicata alla creazione dei contenuti destinati all’email marketing, la mossa vincente è senza dubbio l’individuazione delle buyer personas alle quali ci si sta riferendo, per indirizzare loro comunicazioni mirate, creative, personalizzate e, soprattutto, efficaci.

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Così come nel gergo della battaglia, una guerriglia costituisce una serie di attacchi repentini e rapidi che prendono alla sprovvista un’armata più ampia e organizzata, allo stesso modo la strategia del guerriglia marketing colpisce il consumatore. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta e come numerosi brand internazionali hanno deciso di sfruttarla.

Cos’è e come si fa il guerriglia marketing

Trattandosi di una forma di marketing non convenzionale, questa strategia punta il tutto per tutto su un effetto sorpresa a forte impatto emotivo e sensoriale. Tante aziende hanno deciso di sperimentare con questa tecnica innovativa, grazie al suo effetto immediato sulla sfera emozionale, alla facilità di realizzazione e soprattutto ai costi molto più bassi di un’azione pubblicitaria canonica.

A differenza delle classiche campagne messe in atto in televisione, nei giornali, sui tabelloni e sui social, il guerriglia marketing sorge laddove la consapevolezza pubblicitaria del pubblico è bassa e quasi nulla, cogliendolo del tutto inaspettatamente.

Ciò si traduce in installazioni basate su elementi già presenti nell’ambiente cittadino e metropolitano circostante, ma del tutto rinnovati e reinterpretati per veicolare un forte messaggio legato a uno specifico prodotto o marchio.

Così stazioni della metropolitana, fermate degli autobus, lampioni, panchine, piazze e ponti diventano mezzi importantissimi per la divulgazione di concetti sia prettamente commerciali, che di natura sociale e umanitaria.

Alcuni settori più di altri, infatti, faticano a trovare nel marketing tradizionale la soluzione attraverso la quale esprimere sé stessi e le proprie cause: tutto ciò che riguarda la beneficenza, le associazioni e il volontariato, per esempio, non riesce appieno a divulgare il proprio messaggio tramite inserzioni televisive, social e sulla stampa, in quanto tutto prettamente fondato sull’aspetto commerciale della vita.

Ovviamente, per riuscire a mettere in piedi strategie di guerriglia marketing di ampia portata, in location importanti quali il centro delle maggiori città cosmopolite, sono necessari fondi cospicui a cui soltanto una piccola parte degli enti benefici può attingere.

La disponibilità economica può facilitare l’installazione, ma non è vincolante per la buona riuscita del guerriglia marketing: anche a basso costo è possibile ideare e sviluppare campagne efficaci, sorprendenti, coinvolgenti ed emozionanti che spingano il pubblico a parlarne.

Obiettivi del guerriglia marketing

Oltre a svecchiare e rinnovare completamente il concetto di marketing, questo tipo di strategia ha alcuni obiettivi ben precisi. Come già anticipato, il goal iniziale è quello di attirare l’attenzione del target in maniera inattesa. Se ciò avverrà, è perché le emozioni suscitate sono state coinvolgenti e repentine, al punto che lo spettatore sarà portato a raccontarle al prossimo, rendendo il progetto virale. Il fine ultimo del guerriglia marketing è spingere il singolo utente target a trasformarsi in un portavoce del messaggio, un divulgatore in grado di aumentare la visibilità del marchio e la consapevolezza da parte del grande pubblico.

Per questa ragione, oltre al settore del sociale, anche l’industria dell’intrattenimento e del cinema sempre più spesso si è rivolta al guerriglia marketing. Le tradizionali locandine affisse sui muri delle città si sono evolute in cartelloni interattivi, e i trailer sono stati integrati da comparse live degli attori a spasso per le città al fine di promuovere una nuova pellicola cinematografica o serie in streaming.

Esempi di guerriglia marketing

Un esempio interessante di guerriglia marketing nel campo del cinema è costituito dalla serie italiana “1992”, debuttata nel 2015 su Sky Atlantic, i cui protagonisti sfilarono in abiti di scena per le vie di Roma, lanciando in aria banconote finte riportanti il logo della serie.

Anche il settore delle assicurazioni, uno tra quelli con la maggior difficoltà a produrre campagne di marketing convenzionali ed efficaci causa la tematica trattata, ha sviluppato negli ultimi anni ottime strategie di guerriglia marketing. Basti pensare al fenomeno del Gruppo Generali: in occasione dell’apertura di una nuova filiale milanese, venne riprodotta nel centro della città la fuoriuscita di un sottomarino dalle viscere della terra. L’installazione, oltre al vero e proprio cratere, prevedeva anche parcheggi dissestati, massi caduti e automobili danneggiate. Un esempio eclatante, capace di instillare nel pubblico la necessità di rivolgersi al brand per una copertura assicurativa contro danni accidentali e imprevisti.

I colossi di food & beverage non sono stati da meno, spuntando negli ultimi anni con iniziative di guerriglia marketing davvero potenti e d’impatto. Basti pensare a Burger King, che ricreò sotto uno dei propri post Instagram una lite tra fidanzati, causata da un tradimento: il post diventò di portata virale, prima che il grande pubblico si rendesse conto che si trattasse di un progetto architettato a tavolino per ottenere quell’esatto risultato.

Mc Donald’s, invece, fu tra i primi a puntare e investire nelle installazioni cittadine, trasformando strisce pedonali in patatine fritte, lampioni in caffettiere e milkshakes in affluenti di corsi d’acqua. Con la nascita del Mc Café, infatti, il colosso ha sentito la necessità di comunicare al cliente una nuova tipologia di menù, non più basata soltanto su hamburger e patatine ma più inclusiva e con tutto il necessario per una buona colazione quotidiana.

Per quanto riguarda il settore delle associazioni benefiche, sono state tante le iniziative a prendere forma negli ultimi anni e a suscitare non poco scalpore nei cittadini. Nelle fermate degli autobus di Stoccolma, per esempio, sono stati inseriti cartelloni interattivi che tossiscono al rilevare la presenza del fumo di sigaretta. A Parigi, un gruppo di attivisti ha ricreato nella Senna un ghiacciaio gonfiabile, circondato dall’acqua del fiume per attirare l’attenzione e sensibilizzare il pubblico al cambiamento climatico.

Ultima ma non per importanza citiamo la campagna di Unicef attuata in diversi paesi europei e non: sono state distribuite bottigliette riempite con finta acqua contaminata, per infondere nelle persone consapevolezza e preoccupazione dei confronti di quelle popolazioni davvero impossibilitate ad attingere a fonti di acqua pulita.

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Parlando di marketing è facile fare di tutta l’erba un fascio credendo che si applichi alla stessa maniera in ogni ambito del mercato. In realtà non c’è niente di più sbagliato e, come vedremo in questo articolo, è opportuno suddividere questa disciplina in base alle finalità che persegue e al contesto in cui viene utilizzata. Il marketing sociale è un tipo di strategia ben differente da quella commerciale, scopriamo perché.

Cos’è e di cosa si occupa il marketing sociale

Il marketing sociale si avvale delle stesse tecniche di quello convenzionale, con uno scopo ben diverso. L’obiettivo della campagna non è più la vendita di un bene o servizio appartenente a una determinata azienda, ma la promozione di comportamenti sociali e la loro incentivazione al fine di indurli nell’utente target.

L’obiettivo del marketing sociale è il cambiamento di abitudini e atteggiamenti da parte del singolo, di un gruppo di persone o dell’intera comunità, che verrà spinta verso l’adozione di nuovi comportamenti più responsabili, sani e salutari.

I prodotti attorno ai quali ruota il marketing sociale non sono beni tangibili e materiali, ma idee, valori e visioni differenti della realtà che vengono promosse tramite campagne di informazione e sensibilizzazione. Mettere in evidenza tutti i rischi che uno stile di vita disattento e sregolato può comportare, e presentare i benefici che si otterrebbero dall’integrazione di nuovi comportamenti più responsabili e ponderati, sono i punti chiave di una strategia di social marketing.

A finanziare questo tipo di campagna non sono solamente aziende private come invece accade per il marketing tradizionale, ma anche e soprattutto enti pubblici e associazioni no profit che attingono a tasse e fondi pubblici nel primo caso, e donazioni nel secondo.

Nel marketing sociale, il beneficio viene atteso e riscontrato sul medio e lungo termine, in quanto il target deve avere il tempo di riconoscere, studiare e assimilare i nuovi concetti promulgati dalla campagna, prima di poter essere in grado di mettere in atto un cambiamento drastico nel proprio stile di vita. Tale evoluzione nelle abitudini del pubblico avviene seguendo la cosiddetta teoria dello scambio: il target accetta di cambiare solo se percepisce che il guadagno eguaglia o supera la perdita comportata dall’abbandono di un determinato pensiero, abitudine o usanza.

Le campagne incentrate sulla pericolosità dell’alcool, del fumo, del gioco d’azzardo, delle droghe, sulla prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili, sull’importanza di uno stile di vita ecosostenibile, sulla sensibilizzazione nei confronti delle discriminazioni subite dalle minoranze etniche, rientrano tutte nella macrocategoria del marketing sociale. Il loro piano di azione si basa sulla diffusione di informazioni nuove, accurate e affidabili che possano dissuadere consapevolmente l’utente dall’impiego di comportamenti dannosi e/o scorretti nei confronti del prossimo e che portino a un ampliamento della consapevolezza collettiva.

La differenza tra social marketing e social media marketing

A volte la lingua inglese può trarre in inganno. Bisogna prestare particolare attenzione alla differenza tra social marketing e social media marketing. Se nel primo caso, come abbiamo visto in precedenza, si pone il focus su un contenuto socialmente educativo, volto alla promozione di nuovi concetti, ideali e comportamenti salutari, nel secondo caso l’obiettivo è la vendita di prodotti o servizi strutturata nello specifico sui social network.

Il social media marketing fa pertanto sempre parte del marketing convenzionale, il quale si rivolge a un target passivo a cui si desidera influenzare le abitudini di acquisto.

Anche il marketing sociale può tuttavia avvalersi di strategie sviluppate sui social network come Instagram, Facebook, Youtube, Tiktok e Twitter, senza perdere di vista i propri obiettivi. In questo caso, le inserzioni saranno di tipo interattivo e spingeranno gli utenti a partecipare a determinate iniziative, eventi o raccolte fondi, invece che passivamente entrare in contatto con un nuovo prodotto da aggiungere nella propria lista degli acquisti.

Esistono poi delle eccezioni alla regola, che affiancano al marketing sociale prettamente divulgativo e informativo anche dei veri propri prodotti e servizi concreti e acquistabili, che possano facilitare il cambiamento comportamentale nella società.

Un esempio potrebbero essere i gruppi di sostegno antifumo, o di supporto a coloro che soffrono di problemi di alcolismo, o ancora un’affiliazione con palestre locali per promuovere la lotta contro l’obesità.

Il social marketing utilizzato dalle aziende

Finora abbiamo parlato del marketing sociale soltanto dal punto di vista teorico e messo in atto da istituzioni pubbliche o associazioni no profit, ma sarebbe sbagliato non sottolineare l’importanza di questa strategia quando adottata dalle aziende stesse.

Attraverso il social marketing, infatti, le imprese prendono attivamente posizione riguardo tematiche sensibili e dimostrano al pubblico un impegno verso cause di utilità collettiva. Il tutto viene attuato secondo una prospettiva di miglioramento della CSR, ovvero la responsabilità volontaria che l’azienda si assume nei confronti degli stakeholder (di cui abbiamo parlato qui), primi fra tutti i propri clienti.

Un esempio concreto è l’organizzazione di eventi e raccolte fondi a favore di enti benefici a cui verrà donato l’intero ricavato del progetto: in questo modo non è solo la comunità a beneficiarne, ma anche la brand image dell’azienda, che guadagna credibilità e affidabilità agli occhi del grande pubblico, aumentando di riflesso anche il venduto e il profitto.

L’azienda italiana Ferrarelle è dal 2007 sostenitrice di Unicef, con il quale ha organizzato numerose iniziative per inserire e rinnovare i sistemi idrici e i servizi igienici in Ciad ed Eritrea, guadagnando così un incremento delle vendite del 3,2% e un 15,8% di frequenza di acquisto della marca.

A livello internazionale, un brand da anni impegnato nella promozione di cambiamenti sociali è Dove che sostiene, in collaborazione con diverse associazioni, l’ascolto e la cura al disagio psicologico provocato dai disturbi alimentari e d’immagine.

Un’iniziativa di tale portata ha dato i propri frutti sul lungo termine quando, nel 2015, l’azienda è giunta al primo posto della classifica AdAge, all’interno della quale compaiono le 15 migliori campagne di social marketing realizzate nel ventunesimo secolo.

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