Via Don Luigi Sturzo, 2 - 95014 Giarre (CT) +39 095.7796312
Creatigroup

Sono tanti i fattori che concorrono al successo del brand, tra i quali spicca l’ascolto attivo della propria audience: solo così è possibile entrare a conoscenza delle esigenze del pubblico, del feedback dei consumatori e dei loro sentimenti nei confronti del marchio. Esistono strategie apposite per monitorare e ascoltare con successo il target, in questo articolo ne parliamo nel dettaglio.

Cosa sono Social Media Monitoring e Listening

Il marketing online non si basa soltanto sulla pubblicazione di contenuti: una fase altrettanto fondamentale è quella successiva, che consiste nel valutare la risposta del pubblico in base alle azioni compiute partendo dai suddetti contenuti.

In questo articolo avevamo parlato delle migliori strategie per elaborare il proprio posizionamento social.

Quella del social media listening può essere definita come un’attività di ascolto mirato nei confronti dei consumatori, attraverso tool specifici che raccolgono e monitorano le loro conversazioni contenenti determinate keywords, tag e menzioni.

Per fare social media listening non è sufficiente visualizzare con costanza le reazioni (likes, commenti, condivisioni) ai propri post, ma è necessaria una visione più dettagliata dei risultati che viene garantita dall’utilizzo di piattaforme, sia gratuite che a pagamento.

Prima di attuare con successo una strategia di social media listening occorre mettere in campo un’azione preliminare di social media monitoring, durante la quale si raccolgono i dati per la definizione della propria campagna di ascolto.

Basti pensare che ben il 74% dei consumatori orienta le proprie scelte di acquisto in base a quanto visto e sentito sui social media: soltanto il 33% si lascia sedurre dalle pubblicità, mentre oltre il 90% viene influenzato dalle opinioni di conoscenti, contatti e influencer (di cui avevamo parlato nel dettaglio qui).Questi sono alcuni dei dati che sottolineano la fondamentale importanza dell’ascolto del pubblico: solo così il brand sarà in grado di ottimizzare prodotti, servizi, assistenza alla clientela e accrescere la propria visibilità.

Obiettivi del Social Media Listening

L’ascolto del consumatore non si limita solo alla raccolta dei risultati per utilizzarli come “vanity metrics“: è in realtà un passaggio importantissimo che concorre al successo e alla popolarità del brand. Se non si conosce il proprio pubblico, con relative preferenze, abitudini e sentimenti, come si potranno mettere in piedi campagne di marketing e commerciali mirate e proficue?

Il social media listening ha un potenziale sconfinato che permette alle aziende di affrontare a testa alta i momenti di crisi e trarre preziosi spunti per migliorare il proprio approccio e l’esperienza generale che viene offerta al cliente.

Si stima che oltre il 30% dei consumatori sia ormai abituato a utilizzare i social come strumento per ricevere supporto dai brand e che il lasso di tempo medio che si è disposti ad attendere per ottenere risposta oscilli tra i 30 minuti e le 24 ore.

Un servizio clienti attento, amichevole e celere soddisfa il 76% degli intervistati, che lo preferiscono a un servizio più formale e distaccato, come quello via mail o telefonico.

Il social media listening consente di non perdersi nessun tentativo di interazione, sia diretto che indiretto, mettendo il marchio in diretto contatto con il pubblico, le sue preferenze e le sue critiche.

Tenendo monitorate soltanto le menzioni realizzate con la famosa @ prima del nome e gli hashtag ufficiali, si rischia di tralasciare una fetta importante di interazioni da parte degli utenti. Capita spessissimo, infatti, che per errore di digitazione o di spelling la pagina del brand non venga taggata: è proprio in questi casi che gli strumenti di social media listening entrano in azione, arrivando a seguire le conversazioni sul brand, anche qualora non fosse avvenuta una citazione diretta per errore o per dimenticanza. Un brand attento al sentiment del proprio target è fortemente interessato all’osservazione di tutte le esperienze e non soltanto di quella piccola parte che arriva sotto forma di notifica.

Una fetta importante del social media listening consiste nell’individuazione degli influencer, ovvero di quelle figure di spicco sui social, che sono in grado di indirizzare l’opinione del pubblico verso scelte ben definite nell’ambito di un determinato settore.

In questo modo selezionare e intraprendere collaborazioni con i content creator risulterà ancora più semplice e offrirà maggiori possibilità di successo da entrambe le parti.

Come fare Social Media Listening

Per portare a termine una buona strategia di social media listening è necessario andare per gradi: innanzitutto vanno individuati gli obiettivi. Tra i principali figurano una miglior gestione dei servizi grazie ai feedback, una più approfondita relazione con il pubblico, una selezione accurata degli influencer più adatti al marchio e un’ottimizzazione del servizio clienti.

Fatto ciò sarà possibile procedere con la ricerca specifica di menzioni, tag, parole chiave e intere frasi relative al proprio marchio o prodotto, non soltanto sulle pagine social ufficiali ma blog, siti, forum e piattaforme di recensioni.

Oltre alle proprie, è estremamente saggio tenere monitorate anche le performance della concorrenza: ottiene più interazioni? Un numero più alto di utenti ne parla? La percentuale di acquirenti soddisfatti è maggiore? Tenere un occhio sull’operato delle aziende che popolano il nostro settore di mercato è una mossa vincente per rimanere sempre aggiornati e stare al passo con le tendenze di acquisto del momento.

Gli strumenti disponibili per il monitoraggio e l’analisi della propria presenza online possono essere di natura gratuita oppure a pagamento. Affinché vengano considerate affidabili e veramente utili all’azienda, questa piattaforme devono essere in grado di:

Inviare notifiche automatiche ogni volta che i termini di interesse vengono digitati online

Analizzare non soltanto le parole scritte, ma anche le immagini che riportano allo stesso concetto (visual listening)

Offrire aggiornamenti real time per garantire una risposta veloce all’audience

Analizzare in autonomia i dati storici

Creare report automatici da scaricare e utilizzare anche offline

-Ricercare e studiare i migliori influencer del settore di interesse

Osservare l’andamento dei competitor

Alcune delle piattaforme più gettonate per il social media listening sono Agorapulse, Talkwalker, Keyhole e Buzzsumo.

0

Creatigroup

Ormai è assodato: il digital marketing comprende una così grande quantità di processi che è pressoché impossibile pensare di gestirli tutti manualmente. Soprattutto per le grandi imprese, le cui campagne hanno portate davvero imponenti, è fondamentale affidarsi a sistemi di automazione innovativi che semplifichino e ottimizzino le operazioni di marketing online.

In questo articolo vediamo nel dettaglio che cosa si intende per marketing automation, come funziona e come sfruttarla al meglio.

Cos’è la Marketing Automation

Da sempre l’uomo è alla ricerca di nuovi metodi per migliorare, velocizzare e semplificare il proprio lavoro, oltre che le attività quotidiane. Anche l’ambito del marketing non fa eccezione: per questo sono stati progettati software in grado di svolgere in maniera automatica numerose operazioni di comunicazione una volta attuabili soltanto manualmente.

Con marketing automation intendiamo quindi piattaforme studiate ad hoc per supportare le aziende in tutti quegli aspetti del digital marketing che vanno dalla gestione social, alle landing pages, alle campagne email, agli analytics e al campaign management.

Se in un primo momento un brand fa del proprio meglio per portare a termine tutti questi processi di comunicazione in maniera autonoma, contando sulle poche risorse a disposizione e facendo tesoro di ogni singola figura all’interno dell’azienda, una volta consolidato il business è consigliabile passare a un sistema di automazione in modo da rendere più snello, scorrevole e produttivo il lavoro dei marketer, mentre si eleva la qualità del servizio reso al cliente.

L’obiettivo della marketing automation è proprio quello di raggiungere il giusto target nel momento più opportuno, aumentando di riflesso la popolarità del marchio, fidelizzando la clientela e portando a un innalzamento del profitto.

In questo articolo avevamo visto le migliori strategie di marketing per vendere online.

Nonostante all’automazione delle operazioni di marketing ci pensino piattaforme e software, sarebbe sbagliato credere che questi sistemi digitali abbiano soppiantato la componente umana: nel marketing e nella pubblicità concorrono in egual misura numeri e dati con empatia e psicologia, doti impossibili da ricavare da un programma computerizzato.

Dietro ogni sistema di automation, quindi, resta un lavoro meticoloso da parte delle risorse umane che sono così in grado di migliorare le proprie performance e implementare il contributo dato all’azienda.

Quali sono i compiti della Marketing Automation

Quelli di marketing automation sono servizi multitasking che si occupano di diversi aspetti fondamentali riguardanti la comunicazione delle aziende. Oltre alla creazione e alla pubblicazione di campagne multicanale in maniera del tutto autonoma (o quasi), hanno anche il compito di monitorare, tracciare e analizzarne l’andamento in modo da fornire ai marketer gli strumenti per un continuo miglioramento del proprio lavoro.

I compiti principali dei software di automazione sono quindi:

Tracciare il comportamento dei visitatori di siti e pagine

Creare newsletter, landing e moduli

Salvare le informazioni ricavate dai suddetti moduli

Stilare report completi di tutti i dati raccolti

Inserire i dati nel CRM (software che gestisce la relazione tra azienda e clienti)

Concretamente, le operazioni svolte dalle piattaforme di automazione si riassumono in:

Personalizzazione delle email in base ai comportamenti degli utenti e lead nurturing

Social media listening (che abbiamo approfondito in questo articolo)

Lead scoring (classificazione automatica delle azioni da compiere in base alla priorità)

Segmentazione del target

Tracciamento e registrazione delle attività degli utenti

Invio dei dati al software CRM

Come avviare una Marketing Automation di successo

Come accennato in precedenza, l’inserimento di un software di automazione è opportuno a partire da un certo stadio della vita dell’azienda che, ormai consolidata, necessita di un sistema in grado di gestire processi di vendita complessi e articolati.

Se nel mondo anglosassone l’adozione della marketing automation è una scelta ormai scontata, in Italia questa strada riguarda ancora una minoranza degli imprenditori. In un Paese dove a farla da padrone è la piccola e media impresa, l’approccio alla sua gestione, anche dal punto di vista della comunicazione, è ben diverso rispetto a quelle aree geografiche in cui sono le multinazionali a dominare il mercato.

In Italia tante aziende seguono ancora un modello gestionale arcaico, e solo quelle nate nell’ultimo decennio comprendono l’importanza dell’automazione come supporto alle operazioni di digital marketing.

Le piattaforme di marketing automation, per funzionare, hanno bisogno di un’impostazione preliminare da parte dei marketer, che dovranno settare lo scenario di partenza che genererà le varie operazioni automatiche.

Tale scenario, chiamato in gergo “workflow“, può corrispondere a un’identità precisa dell’utenza, oppure a un suo comportamento.

Un esempio? Ti sei mai chiesto come faccia ad arrivare la classica mail di “recupero carrello” quando si abbandona un acquisto proprio in fase di pagamento? Il merito è delle piattaforme di automazione, che rilevano l’attività e contattano in automatico il cliente per invogliarlo a finalizzare l’ordine. Utile, no?

O ancora, pensiamo a tutte quelle mail ricevute in occasione del nostro compleanno: è impensabile che dietro tale tipo di comunicazione ci sia una persona in carne e ossa. Se in un business appena nato, con al massimo qualche centinaio di contatti, tale soluzione sarebbe ancora fattibile, in un’azienda operativa a livello internazionale con decine di migliaia di utenti attivi, ciò costituirebbe una vera follia. Ecco quindi un altro caso di marketing automation!

0

Creatigroup

Al fine di condurre un’azienda di successo, oltre a un buon piano commerciale, di comunicazione e logistico, è necessario poter contare su figure professionali in grado di guidare il resto dei collaboratori, non solo supervisionando il loro operato ma spronandoli a esprimere il loro potenziale. Parliamo quindi della leadership aziendale: di che cosa si tratta e come migliora la produttività generale? Vediamolo insieme.

Cos’è la leadership aziendale

Il termine leader fa riferimento a un individuo autorevole, capace di influenzare positivamente l’attitudine e il comportamento degli altri dipendenti, aumentandone il rendimento e creando coesione all’interno dell’ambiente lavorativo.

A differenza di un manager, la cui attenzione è focalizzata esclusivamente sul raggiungimento di obiettivi economici, il leader si concentra sulle risorse umane, gestendole in maniera sempre diversa a seconda delle circostanze, con il fine ultimo di stimolare la produttività di ogni singolo individuo per giungere tutti insieme al traguardo prefissato.

Per diventare leader sono necessarie numerose skills, non solo dal punto di vista della competenza nel campo di riferimento, ma anche e soprattutto da quello attitudinale. Un buon leader, infatti, deve innanzitutto avere ottime capacità di comunicazione, per potersi relazionare in maniera chiara, trasparente e assertiva con il personale.

Inoltre, una buona dose di carisma è più che necessaria, in quanto aiuterà a spronare i collaboratori e a trasmettere loro positività, intraprendenza e voglia di fare. Il clima sereno dell’ambiente lavorativo dipende in larga parte dal leader, che è colui che più di tutti influenza le altre personalità: se questa figura si pone in maniera aggressiva, fredda, distaccata, senza riconoscere il talento e i meriti dei propri sottoposti, questi ultimi di conseguenza sperimenteranno un brusco calo di motivazione e fiducia in sé stessi, diminuendo di riflesso anche la produttività generale.

Proprio per evitare tale situazione, è importante che il leader sia affidabile ed empatico, che guadagni cioè la fiducia dei collaboratori e consenta loro di esprimersi liberamente anche dal punto di vista emotivo. Solo tramite l’accoglienza e l’ascolto reciproco, infatti, è possibile ottenere il massimo da ogni singola figura che compone l’organico dell’azienda. Il rendimento di quest’ultima è strettamente legato alla gestione delle risorse umane, così come venne dimostrato dallo psicologo Elton Mayo già negli anni ’30 del secolo scorso. Relazioni positive portano a una maggior serenità tra i collaboratori, che raggiungeranno l’obiettivo comune in meno tempo e con più entusiasmo. Questo vale per tutti i settori lavorativi, compreso quello della grande distribuzione, di cui avevamo parlato qui.

Differenti modelli di leadership

La leadership può (e deve) essere esercitata in maniere differenti a seconda delle circostanze, e delle personalità con cui si ha a che fare.

Nessuna è giusta o sbagliata: un buon leader è colui che sa quando e come attuare le diverse strategie per ottenere i migliori risultati dai propri dipendenti.

Per diventare leader all’interno dell’azienda, al contrario di quanto può accadere con posizioni specifiche, non è necessario detenere un certo titolo di studi, o avere raggiunto un certo grado di anzianità: ciò che conta è la predisposizione mentale, emotiva e attitudinale a guidare il gruppo dei collaboratori.

Secondo il modello di leadership elaborato da Hersey e Blanchard, esistono quattro tipologie principali di approccio:

-Leadership direttiva: in questo primo caso, le decisioni vengono prese dal leader e sono insindacabili. I sottoposti sono soltanto incaricati di portare a termine le proprie mansioni, senza possibilità di apportare cambiamenti alle linee guida fornite. La comunicazione è quindi di tipo unidirezionale. Tale approccio si applica soprattutto qualora i collaboratori non avessero ancora maturato le competenze necessarie a svolgere il compito in autonomia.

-Leadership persuasiva: avanzando nella scala dei modelli troviamo questa tipologia di leadership, indirizzata soprattutto al personale che ha competenza nel settore di interesse, ma manca di entusiasmo e partecipazione. Adottando una comunicazione bidirezionale, i collaboratori vengono stimolati e possono accrescere giorno dopo giorno la fiducia in sé stessi, confrontandosi con il leader e apportando le proprie idee in merito al progetto in questione. In questo tipo di approccio, il leader svolge un’azione altamente orientata alle relazioni: l’obiettivo è quello di far acquisire sicurezza ai sottoposti, in modo che possano svolgere i compiti in autonomia nel prossimo futuro.

-Leadership partecipativa: quando il modello persuasivo non è più necessario, si può optare per quello partecipativo. In questo modello di leadership, il leader non ha più un ruolo centrale, ma può contare su collaboratori in grado di svolgere in maniera indipendente le mansioni. Il suo intervento è sporadico, e avviene soltanto in caso di necessità, o per incoraggiare il personale a continuare sulla retta via.

-Leadership delegante: il più alto modello di leadership è quella delegante. In quest’ultimo caso, il leader fornisce soltanto le linee guida ai collaboratori, ma saranno questi ultimi a occuparsi di ogni fase del progetto senza necessità di alcun intervento da parte del superiore. Il personale, a questo punto, ha acquisito competenze, responsabilità e diligenza, qualità sulle quali il leader può far affidamento senza alcuna preoccupazione.

In questo articolo avevamo approfondito la tematica del rischio d’impresa, un aspetto importante da tenere in considerazione quando si decide di avviare la propria attività.

La leadership post pandemia

Viviamo in un’epoca in cui la società evolve alla velocità della luce, e spesso stare al passo può rivelarsi difficoltoso. Soprattutto dopo gli avvenimenti che hanno caratterizzato gli ultimi anni, emergenza sanitaria, conflitti geopolitici, inflazione, è importante che la figura del leader sappia adattarsi alle nuove circostanze che ormai riguardano la totalità della popolazione. Un approccio basato soprattutto su umanità e gentilezza, ora ancor più che in passato, serve a motivare i dipendenti, a renderli partecipativi, entusiasti e sicuri delle proprie capacità, garantendo all’azienda ottime performance.

Passare da uno stile autoritario a uno collaborativo, cambiando il soggetto da “io” a “noi”, è la chiave per il successo di un’azienda nell’era post pandemica. Le decisioni non vengono più prese da una sola persona in maniera insindacabile, ma diventano oggetto di confronto e scambio di idee, al fine di coinvolgere il personale e renderlo fiero della propria posizione all’interno dell’impresa.

Ovviamente, passare a una leadership più umana non significa perdere di vista gli obiettivi economici, ma ottimizzare il percorso verso il raggiungimento degli stessi, interessandosi e curandosi sinceramente del benessere dei propri collaboratori, e fornendo loro gli strumenti necessari per sviluppare appieno il potenziale che custodiscono.

0

Creatigroup

Qualsiasi attività imprenditoriale deve fare i conti sin dalla nascita con la possibilità che si verifichino eventi e situazioni impreviste in grado di minare la stabilità del business. Questo insieme di fattori viene denominato rischio d’impresa, un aspetto intrinseco all’impresa stessa che è importante saper gestire a dovere per avere successo sul lungo termine. In questo articolo scopriamo di che cosa si tratta esattamente, e quali sono i passi da muovere per ottimizzare il proprio enterprise risk management.

Cos’è il rischio d’impresa

L’impresa, definita come un’attività economica il cui scopo è la generazione di profitto, è un concetto per nulla statico, ma anzi in continua evoluzione. Il suo destino non può essere in alcun modo predetto, in quanto dipende da una serie di fattori esterni indipendenti ed estremamente variabili, come il costo delle materie prime, l’avanzamento della tecnologia, l’affermazione di nuovi competitor, le variazioni dei regimi fiscali, e gli avvenimenti economici e politici dell’ambiente circostante. Non esiste un solo business esente dal rischio d’impresa, ovvero dalla possibilità che avvengano cambiamenti capaci di destabilizzare o affossare completamente l’impresa stessa.

Questi rischi, che possono essere tradotti in crisi di varia natura, vanno gestiti in maniera responsabile e lungimirante se si desidera che la propria attività sopravviva anche alle situazioni più dure. Il calcolo del rischio è un processo imprescindibile a cui dedicare tempo e risorse quando si avvia l’impresa, e va affidato a personale competente, i cosiddetti Risk Manager, con l’obiettivo di intercettare i pericoli e ridurli al minimo. Queste figure specializzate hanno il compito di studiare il mercato e le sue variazioni, e proporre soluzioni volte a tutelare l’imprenditore stesso, i suoi dipendenti e gli azionisti.

Il concetto di rischio d’impresa esiste sin dall’alba dei tempi, in quanto non può in nessun modo essere separato dall’essenza dell’attività imprenditoriale stessa. La gestione del rischio, invece, è una disciplina che iniziò a essere studiata negli anni ’50 del secolo scorso, dando vita a quelle figure professionali al giorno d’oggi indispensabili all’interno di qualsiasi azienda di successo.

Un bravo risk manager deve identificare per tempo le possibili minacce, valutarne l’impatto, studiare le strategie di intervento e ottimizzare gli investimenti dell’impresa, in modo che le perdite siano arginate.

Gestire in maniera ottimale i rischi comporta numerosi vantaggi per l’azienda, tra questi:

Un miglior rapporto con gli istituti bancari, che saranno disponibili a elargire crediti grande portata

Migliore conoscenza dei processi produttivi e dell’azienda in sé

Miglior rapporto con gli azionisti, e più in generale con tutti gli stakeholder, di cui avevamo parlato qui

Miglior organizzazione dell’intera struttura aziendale

Tipologie di rischi d’impresa

Quello del rischio d’impresa è un concetto astratto, che può coinvolgere differenti aspetti dell’azienda stessa. Per questo motivo viene scomposto per comodità in diverse categorie, in modo da poter studiare in maniera più chiara e approfondita tutte le sfaccettature di questa ampia nozione.

Il rischio economico è legato all’equilibrio tra i costi e i ricavi dell’azienda e comporta conseguenze sul suo reddito, per esempio a causa dell’inflazione o dell’impossibilità di un cliente di saldare i debiti nei confronti dell’impresa.

Il rischio patrimoniale incide in maniera diretta sul patrimonio dell’azienda: parliamo in questo caso di una serie di eventi e fattori in grado di minare il capitale stesso dell’impresa.

Il rischio finanziario riguarda l’equilibrio tra il flusso di denaro in entrata e quello in uscita. Il profitto di un’azienda non si basa soltanto su quanto generato dalla vendita di beni e servizi, ma anche sui risvolti ottenuti dagli investimenti: questi ultimi possono avere esito positivo, oppure negativo incidendo sulla situazione finanziaria complessiva.

Ultimo ma non per importanza troviamo il rischio reputazionale: questo è certamente il fattore astratto per eccellenza, in quanto è pressoché impossibile da prevedere, ma quello che necessita della gestione più attenta e intelligente. Riguarda la possibilità che notizie riservate vengano diffuse assumendo una connotazione fortemente negativa, compromettendo la reputazione stessa del business e talvolta il suo fallimento.

Il rischio reputazionale può essere tradotto in cause legali e sindacali, scandali che coinvolgono i vertici o la responsabilità sociale dell’impresa, cattiva gestione amministrativa e scelte strategiche sbagliate.

Come tutelarsi dal rischio

Ormai è assodato: il rischio è una costante nel mondo dell’imprenditoria. Il risk manangement è l’insieme delle scelte prese dall’azienda con lo scopo di prevenire e risolvere in maniere efficace qualunque problema si presenti lungo il cammino. Ma oltre allo studio approfondito e al monitoraggio costante di tutte le variabili esterne, ci sono metodi concreti adottabili dagli imprenditori per tutelare sé stessi e la propria attività? La risposta è sì: esistono polizze assicurative dedicate alle imprese, che proteggono il capitale investito, i lavoratori e il capitale civile coinvolto.

Al giorno d’oggi questo tipo di precauzione non è tanto diffuso e ben visto in Italia quanto nei paesi anglosassoni, ma è comunque in via di sviluppo e sempre più imprenditori decidono di affidarsi a organi competenti per la tutela dell’impresa.

Sono infatti tanti i fronti da proteggere: in primis il capitale investito, che riguarda non soltanto il denaro ma anche tutti gli strumenti e i macchinari a disposizione dell’azienda.

Si pensi poi ai dipendenti e ai collaboratori che risentirebbero in maniera diretta di eventuali crisi e problematiche riguardanti l’azienda; in ultimo va citata l’assicurazione contro il rischio civile, che protegge in caso di danni civili provocati a terzi.

Purtroppo molti imprenditori, soprattutto i più giovani e meno esperti, tendono a considerare le polizze assicurative come oneri pesanti e inutili. Si tratta certamente di una spesa in più da sostenere, che va affrontata con lungimiranza e con la consapevolezza che, qualora si verificassero eventi inaspettati e indipendenti da noi, potrebbe davvero fungerà da salvagente per la nostra azienda.

0

Creatigroup

Il dropshipping è un modello di business online originario degli USA, che recentemente ha preso piede anche in Italia spinto dalle dinamiche che si sono venute a creare post pandemia da Covid-19. In questo articolo scopriamo nel dettaglio di cosa si tratta, perché conviene, e passo per passo tutti gli step da seguire per poter aprire la propria attività di dropshipping.

Che cos’è il dropshipping

Il concetto che sta alla base di questo nuova tipologia di business è molto semplice: il venditore acquista la merce dal proprio fornitore soltanto dopo aver concluso la vendita al cliente finale. Parliamo di un modello applicabile soltanto ai negozi online, per i quali non è più necessario avere a disposizione un magazzino né realizzare ordini con pagamenti anticipati al fine di avere fisicamente disponibili i prodotti da vendere.

Il venditore costituisce semplicemente un canale tra l’acquirente e il grossista, che si incaricherà direttamente dell’imballaggio e della spedizione dei beni. Questi ultimi vengono acquistati e pagati dal gestore dell’ecommerce nel momento in cui l’ordine viene confermato dal cliente, evitando così di dover fare i conti con rimanenze in magazzino e di incorrere in difficoltà nella vendita delle stesse.

Durante tutto il processo, il grossista resterà anonimo: sarà infatti il venditore a rispondere al compratore in caso di problematiche, rallentamenti nella spedizione o non conformità dei prodotti, nonostante non sia lui il diretto responsabile di tutti questi processi logistici. Allo stesso modo, è la reputazione del venditore ad accrescere quando l’attività procede al meglio e i clienti sono soddisfatti, sebbene di fatto la merce non venga da lui realizzata, né imballata, né spedita.

La vendita in dropshipping è diventata sempre più popolare grazie ai numerosi vantaggi che offre, primo fra tutti la possibilità di dar vita al proprio business senza la necessità di investire grandi capitali. Non servendo più un magazzino per stoccare la merce, personale per imballare i pacchi, corrieri per la loro spedizione, né tantomeno ordini anticipati al grossista, il venditore avrà la possibilità di canalizzare tutte le risorse nella costruzione del sito web e nelle sponsorizzazioni per promuovere la propria azienda. In questo articolo avevamo parlato nel dettaglio di tutte le strategie attuabili per avere successo nella vendita online.

Ovviamente è necessario tenere in considerazione le spese legate all’apertura di un nuovo ecommerce, il salario di eventuali dipendenti e collaboratori, così come le tasse che verranno applicate come succede per tutte le altre imprese. Tutto sommato, è possibile partire con un budget molto più limitato rispetto a quanto accade nel caso delle tradizionali attività, sia online che offline.

Pro e contro del dropshipping

Tutti sappiamo quanto negli ultimi due anni le abitudini di consumo dell’intera popolazione siano mutate (come avevamo già visto qui), spianando ancora di più la strada all’online a discapito dei negozi fisici. Il dropshipping è la nuova frontiera dell’ecommerce, che garantisce numerosi benefici a chi vi ricorre. Innanzitutto, come citato in precedenza, il capitale di investimento sarà veramente esiguo: parliamo di circa 8/10 mila euro annui, considerando le spese per l’hosting dell’ecommerce (variano a seconda delle piattaforme a cui ci si affida), i costi delle pubblicità (un investimento di 200€ mensili è un buon punto di partenza), e le tasse comprensive di apertura di partita IVA, contributi e commercialista. A queste cifre si aggiungerà il salario di eventuali dipendenti e collaboratori.

Dopo aver parlato dei (bassissimi) costi per l’apertura di un negozio online in dropshipping, è il momento di valutare i margini di guadagno che, nella maggior parte dei casi, risultano veramente vantaggiosi toccando il 30%: in generale, un margine medio che si attesti tra il 15% e il 20% è ottimo.

Un altro grosso vantaggio riguarda i fornitori: grazie al dropshipping sono in grado di raggiungere un bacino di utenti ancora più ampio, a condizioni davvero competitive.

Questo modello di business, tuttavia, presenta anche alcuni aspetti negativi che è bene tenere in considerazione prima di gettarsi a capofitto.

Il principale per il venditore è il rischio di avere a che fare con fornitori disonesti, che mineranno di riflesso la reputazione della propria attività. Una cattiva gestione delle spedizioni, poca attenzione negli imballaggi, mancanza di reale disponibilità in magazzino, sono tutte evenienze che rischiano di compromettere seriamente la buona riuscita del business.

Inoltre, considerando che molti grossisti provengono da paesi asiatici, Cina principalmente, è possibile che il compratore incorra in tasse doganali, in particolar modo superando certe soglie di spesa.

Tutti questi inconvenienti possono essere, se non del tutto evitati, per lo meno arginati scegliendo accuratamente i propri grossisti, diffidando da coloro che propongono prezzi ben al di sotto della media e di cui non è facile reperire recensioni, feedback e informazioni dettagliate.

Come fare dropshipping nella pratica

Il processo per l’avviamento di un’attiva di dropshipping online assomiglia molto, almeno nella fase iniziale, all’apertura di qualsiasi altra attività commerciale. Per prima cosa è necessario avere una partita IVA, il codice ateco 479110 e l’iscrizione al registro delle imprese. Dopo di che andrà fatta la registrazione all’INPS, la segnalazione dell’apertura allo sportello SUAP del proprio comune, e la scelta del regime fiscale al quale ci si vorrà attenere.

Una volta mossi questi primi passi, bisognerà prendersi del tempo per condurre un’indagine approfondita del mercato d’interesse: trovare una nicchia ancora non affollatissima è imprescindibile se si desidera che il business abbia successo. In secondo luogo, è necessario definire l’identità del marchio: chi vogliamo essere e come vogliamo apparire ai potenziali clienti? Unicità e carattere sono fondamentali per distinguersi dalla massa ed essere facilmente ricordati dal pubblico.

L’ultimissimo passo prima di iniziare, e anche uno dei più importanti, è la scelta dei fornitori. Questi ultimi sono coloro che determineranno la riuscita o il fracasso dell’attività grazie alla qualità dei loro servizi.

Tra i principali requisiti devono esserci:

-Spedizioni tracciabili in ogni momento, affidate a corriere conosciuti ed efficienti

-Offerta di diverse modalità di pagamento

-Disponibilità di resi e rimborsi a termini vantaggiosi per il cliente finale

-Possibilità di reperire recensioni e feedback sulle esperienze pregresse dei fornitori

-Discrezione nell’invio dei prodotti, che non devono far riferimento in nessun modo al grossista ma solo al venditore

Esistono tantissime piattaforme online dove è possibile entrare in contatto con i migliori dropshipper italiani e globali, suddivisi per categoria di appartenenza. Alcune richiedono un canone per l’iscrizione iniziale, mentre altre sono completamente gratuite e fruibili da chiunque. Tra le più famose troviamo LightInTheBox, BigBuy, PrezzoOK, Aliexpress, B2BGriffati…

Non vi resta che scegliere il settore e dare il via alla vostra attività di dropshipping!

0

Creatigroup

L’ambient marketing è una strategia di comunicazione molto in voga negli ultimi anni, incentrata sullo sfruttamento dell’ambiente circostante come suo attore fondamentale. Si tratta di una strategia non convenzionale, basata sull’effetto sorpresa e in grado di catturare l’attenzione del pubblico grazie alla sua notevole creatività. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta e come sfruttarla al meglio.

Cos’è l’ambient marketing

Come sappiamo, il marketing è una disciplina in continua evoluzione che, più di tante altre, necessita di mantenersi al passo con i tempi e con i cambiamenti che avvengono all’interno della società e dei suoi membri. L’ambient marketing è un perfetto esempio di strategia innovativa e contemporanea: la sua ideazione risale appena al 1996 quando un’agenzia di comunicazione inglese sentì l’esigenza di arrivare al proprio pubblico tramite un’iniziativa coinvolgente e creativa, che attirasse l’attenzione come le tradizionali campagne di marketing non erano più in grado di fare. Piazzò quindi inserimenti pubblicitari nelle stazioni di benzina e nei bagni pubblici, luoghi fino ad allora inesplorati dal punto di vista della comunicazione, ottenendo enorme successo e coniando il termine “Ambient Marketing”.

In questa strategia l’ambiente gioca un ruolo fondamentale, e viene utilizzato per veicolare messaggi in grado di aggiudicarsi istantaneamente l’interesse del pubblico. Al giorno d’oggi siamo costantemente bombardati da inserzioni e pubblicità, motivo per cui il nostro livello di attenzione è ormai bassissimo. Per attirarla è necessario ideare qualcosa di insolito, accattivante e impossibile da non notare, anche per coloro che non rientrerebbero normalmente nel targeting del determinato prodotto o servizio.

L’ambient marketing si basa su un fattore chiamato UVP – Unique Value Proposition: è proprio facendosi notare che l’azienda mette nero su bianco tutti i vantaggi che il consumatore otterrebbe scegliendola a discapito dei competitor.

Obiettivi e vantaggi dell’ambient marketing

L’obiettivo primario della strategia di ambient marketing è l‘espansione della brand awareness: tramite l’effetto wow, si catalizza l’attenzione del pubblico, rendendo molto più facile la memorizzazione del marchio. Rispetto ad altri strumenti di marketing, quello ambient è in grado di raggiungere un numero davvero elevato di persone, non soltanto le facenti parte del proprio target, ma anche tutti coloro che si trovano di passaggio nel luogo coinvolto con l’iniziativa. La curiosità suscitata, unita alla creatività del progetto e all’impatto sorprendente, sono capaci di elevare in pochissimo tempo e a costi molto ridotti la popolarità e l’immagine del brand.

Per fare ambient marketing, infatti, non sono necessari capitali smisurati ma unicità e innovazione. Se per esempio ci ritrovassimo a passeggiare in un giardino pubblico i cui i cespugli sono stati trasformati in tazzine da té (iniziativa sviluppata dal colosso Lipton), ne saremmo indubbiamente affascinati, al punto da voler condividere sui social foto e video del momento. La campagna di ambient marketing dà così i suoi frutti, senza il bisogno di appellarsi ai classici e talvolta noiosi cartelloni pubblicitari.

I risultati di questa strategia, a differenza di altre, sono più difficili da registrare tramite metriche e statistiche come la copertura e la visibilità, perché il tutto verte su impressioni che i passanti e i fruitori di determinati luoghi hanno nei confronti di installazioni, oggetti, cartelli pubblicitari interattivi e altri prompt di questo tipo.

L’essenza dell’ambient marketing è la capacità di inserire spunti pubblicitari dove meno ce lo si aspetta, utilizzando l’ambiente circostante come elemento indispensabile: si possono sfruttare parchi, palazzi, piazze, fermate dell’autobus, ma anche luoghi al chiuso come centri commerciali, toilette pubbliche, metropolitane…

L’effetto sorpresa che caratterizza questa strategia appartiene anche a un’altra importante tipologia di marketing anticonvenzionale di cui avevamo già parlato qui, ovvero il Guerrilla Marketing. Quest’ultimo inserisce messaggi pubblicitari ovunque, non solo nello spazio che circonda gli utenti: l’ambiente diventa quindi una componente secondaria e del tutto facoltativa. Non si può dire lo stesso dell’ambient, che cesserebbe di esistere senza il coinvolgimento di luoghi e spazi definiti.

Esempi di ambient marketing

L’ambient marketing è una strategia molto amata dai colossi dell’industria come CocaCola, McDonald’s e Ikea. Vediamo alcuni esempi delle loro installazioni più note.

McDonald’s sfrutta spesso questo tipo di approccio, arrivando ai consumatori tramite luoghi pubblici estremamente frequentati e di passaggio quotidiano. Una delle sue iniziative più famose riguarda la creazione di tazze di caffé e confezioni di cartone altezza uomo, da posizionare presso parcheggi e fermate dell’autobus. Oppure ancora la trasformazione delle strisce pedonali in patatine fritte, dipingendole di giallo e aggiungendo alla base il disegno dell’iconico contenitore rosso.

Ikea utilizza l’ambient marketing già a partire dai propri store, dove i mobili e i complementi d’arredo vengono esposti in modo da ricreare veri e propri ambienti casalinghi, nei quali i possibili compratori possono immedesimarsi e scegliere così più facilmente. Ma non è finita qui! Più volte il colosso svedese ha messo in piedi iniziative nelle piazze delle maggiori capitali europee, ricreando stanze fatte e finite in cui attori designati svolgevano scene di vita quotidiana di fronte alla folla incredula.

Ultima ma non per importanza citiamo CocaCola che in occasione del film 007 Skyfall, creò in diverse fermate della metropolitana un’esperienza interattiva con il pubblico, regalando il biglietto per la proiezione cinematografica della pellicola a chi fosse stato in grado di superare la prova. Il tutto accompagnato dalla colonna sonora del film suonato da violinisti in carne e ossa!

0

Creatigroup

Il marketing odierno non sarebbe lo stesso senza la presenza degli influencer: personaggi di spicco che condividono le loro esperienze di vita sui social network, influenzando le esperienze di acquisto degli utenti.

Ma oramai lo sappiamo, la tecnologia si evolve sempre più velocemente ed è necessario restare al passo; con l’avvento del metaverso, anche la figura degli influencer è destinata a subire una trasformazione, diventando virtuale. Scopriamo quindi insieme chi sono i Virtual Influencer e cosa fanno.

Cos’è il metaverso

Partiamo dalle basi: prima di addentrarci nell’analisi del fenomeno degli influencer virtuali, è necessario dare una definizione (o per lo meno tentare) al famigerato metaverso. Questo termine, coniato nel 1992 dall’autore Neal Stephenson, fa riferimento a un mondo virtuale che si appoggia a internet per il proprio funzionamento. Nel 2021, tale visione risalente a ben 30 anni prima prende finalmente forma grazie al progetto di Zuckerberg, che ha dapprima cambiato il nome di Facebook in Meta, per poi lanciare il proprio Metaverso. Uno spazio virtuale immersivo, ben diverso da un’attività ludica o da un videogioco, ma una vera e propria piattaforma in cui è possibile partecipare a esperienze “reali” senza mettere piede fuori di casa. Nel metaverso si può infatti prendere parte a pranzi e cene con amici, andare in discoteca, assistere a eventi pubblici, concerti e manifestazioni, provare sport estremi e anche avere relazioni con altri individui. Per entrare nel metaverso è necessaria la creazione di un proprio avatar, che interagirà con tutti gli altri presenti nel mondo virtuale. Chiunque può accedervi, basta semplicemente avere a disposizione una connessione internet e un dispositivo idoneo a questo tipo di esperienza.

Il metaverso cela un potenziale sconfinato sin dalla sua ideazione oramai decenni fa: tantissimi imprenditori, società e personaggi famosi stanno infatti già investendo parte del loro capitale in questa mondo alternativo, vista la prospettiva per il prossimo futuro secondo la quale tutto, ma proprio tutto, sarà dotato della propria rappresentazione virtuale. Luoghi, persone, marchi, imprese esisteranno anche nel metaverso. La stessa cosa vale per il fenomeno degli influencer, ora come ora molto attivi su piattaforme come Instagram, Tik Tok e Youtube, ma che ben presto dovranno “trasferirsi” o per lo meno insediare il proprio avatar anche nella realtà sintetica.

Chi sono e cosa fanno i Virtual Influencer

Negli ultimi due anni gli assetti economici, sociali e comportamentali dell’intera popolazione mondiale sono profondamente cambiati.

In un momento in cui il mondo esterno costituiva una minaccia, è stata intensificata la presenza online, portando alla creazione di realtà virtuali oramai già consolidate. I primissimi virtual influencer sono nati nel 2020 in Asia, dove il fenomeno è diventato in pochissimo tempo virale, e costituiscono oggi un punto di riferimento non soltanto per gli utenti ma anche per le aziende con cui collaborano. Si tratta di rappresentazioni sintetiche di persone realizzate da squadre di designer e professionisti del web marketing, appellandosi ai canoni estetici attualmente in vigore nel Paese di provenienza. Se alcune volte questi avatar vengono realizzati utilizzando modelli umani a cui vengono poi cambiati i connotati, in altre occasioni la produzione è al 100% computerizzata.

Prima ancora di spostarsi totalmente nel metaverso, i virtual influencer lavorano su Instagram, il social network al momento più gettonato e redditizio, dove condividono scatti della propria “quotidianità”, sponsorizzano prodotti e si fanno portavoce di cause sociali importanti e in linea con la loro filosofia, precedentemente delineata dai creatori.

Sono numerosi i VI (detti anche CGI – Computer Generated Imagery) che stanno riscuotendo successo sui social, non soltanto in Asia ma anche in occidente: prendiamo per esempio Imma, la più celebre in Giappone, Rosie in Corea, Lil Miquela da Los Angeles o Shudu, originaria del Sudafrica. Se le prime due sono influencer di lifestyle, Lil Miquela con i suoi 3 milioni di follower è un’attivista impegnata nella causa del black lives matter, mentre Shudu, oltre a essere la primissima top model digitale, si impegna nel supporto della comunità di donne colore.

Accanto al lavoro di sponsorizzazione per i brand, i virtual influencer svolgono anche ruoli di portavoce sociali, sfruttati da organizzazioni mondiali come l’OMS che, durante il periodo della pandemia, utilizzò apertamente il VI ventenne Knox Frost per veicolare messaggi sulla sicurezza e la prevenzione. Tutti quelli sopracitati sono perfetti esempi dell’evoluzione il marketing ha attraversando, passando da una natura transazionale a una relazionale. In questo articolo avevamo approfondito la tematica.

Nonostante in Italia il fenomeno sia ancora in via di sviluppo, a dicembre 2021 è nata una delle prime realtà di virtual influncer dal genio di tre ragazzi torinesi: la loro creazione, Nefele, dall’aspetto volutamente gender fluid, cerca di abbattere tutti gli stereotipi legati all’aspetto fisico e all’orientamento sessuale, facendo dei propri “difetti” dei punti di forza, e della propria ambiguità un’identità ben definita. Nefele non ha ancora raggiunto numeri strabilianti, ma certamente il successo non tarderà ad arrivare.

Pro e contro dei Virtul Influencer

I virtual influencer costituiscono un grandissimo vantaggio per le aziende che decidono di ingaggiarli. Questi avatar virtuali abbattono infatti ogni barriera legata a orari, distanza geografiaca, agenda e appuntamenti, e sono disponibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Oltre alle questioni prettamente pratiche, non sono da sottovalutare nemmeno i numerosi pro legati alla mancanza di componente umana in questi influencer: tutti gli aspetti negativi legati a imprevisti, equivoci e lamentele viene bypassata, lasciando spazio soltanto al lavoro vero e proprio, svolto in maniera professionale e senza intoppi.

Nonostante gli influencer in carne e ossa costituiscano un’enorme risorsa per le aziende, non sono rari gli episodi legati a scandali sessuali, politici, o a scivoloni che tradiscono le cause che la persona era stata ingaggiata per sostenere. Scegliendo come portavoce un influencer virtuale non si rischia di incorre in eventuali danni alla reputazione del brand, né in scheletri nell’armadio misteriosamente riapparsi proprio nei momenti meno opportuni.

Il mercato dei virtual influencer, per quanto ancora neonato, ha già generato nel solo 2021 un fatturato di 13,8 miliardi di dollari, cifra destinata a salire esponenzialmente nei prossimi anni.

Se da una parte troviamo tutta una serie di vantaggi, dall’altra dobbiamo fare i conti con la pericolosità che un mondo totalmente virtuale, percepito però come reale, possa comportare. L’eventualità di imbattersi in malintenzionati e catfish è reale ed è necessario mantenersi in guardia. Per questo motivo gli sviluppatori del metaverso sono già all’opera nella creazione di un quadro etico da rispettare, che garantisca trasparenza e regolamenti le attività consentite in questo mondo alternativo.

0

Creatigroup

Tra le numerose teorie comportamentali applicate al marketing nell’ultimo decennio, troviamo quella del “nudging”, ossia della sottile persuasione. L’utente, l’acquirente o il cittadino vengono delicatamente indirizzati verso il compimento di un’azione predeterminata senza far loro percepire la minima obbligazione. Scopriamo di più sul nudge marketing e come sfruttarlo in ambito di web marketing.

Cos’è il nudging

La strategia basata sui nudge (in italiano letteralmente “piccole spinte”) si appella alla psicologia e in particolare alla behavioural economy per portare il soggetto a prendere decisioni prevedibili e precedentemente delineate, semplificando e snellendo i pattern mentali necessari per giungere a una scelta autonoma. Vengono utilizzati dei rinforzi positivi celati che facilitano alla persona il processo decisionale, spesso fonte di agitazione, ansia, stress e pentimento. I comportamenti vengono quindi modificati in maniera del tutto volontaria: non si tratta di manipolazione, ma di una “linea guida” proposta con lo scopo di alleggerire il peso mentale della persona, e di spingerla a compiere azioni più consapevoli nei riguardi di sé stessa o dell’ambiente circostante.

Il nudging funziona proprio perché non impone un cambiamento radicale senza possibilità di scelta, ma modifica la cosiddetta architettura decisionale in modo che l’utente scelga autonomamente la strada prefissata da chi mette in atto la strategia, sia con finalità sociali che economiche. Stimolando i processi mentali relativi alla scelta desiderata e cambiando l’offerta dell’ambiente, si gettano le basi per un approccio di nudging sottile e persuasivo.

I primi a esporre la teoria del nudging furono Cass Sunstein (studioso di diritto) e Richard Thaler (economista), agli inizi degli anni ‘2000. Entrambi si confermarono successivamente come personalità di spicco nel mondo dell’economia e della finanza, partecipando addirittura a un’iniziativa del 2015 del presidente Obama sull’adozione delle scienze comportamentali, e quindi del nudging, in ambito politico, economico e governativo.

Prima che al termine nudging venisse conferito il significato attuale, lo stesso schema veniva riportato come “paternalismo libertario“. Una definizione diversa per indicare la medesima strategia: al soggetto viene data la libertà di scegliere per sé (da qui l’aggettivo libertario), ma sotto la guida attenta di chi sa cos’è meglio per lui (il cosiddetto paternalismo).

Libertà e guida sono i due pilastri fondamentali che danno vita alla teoria del nudge.

Quali sono gli obiettivi del nudging

La teoria del nudge si è rivelata estremamente utile ed è ben presto giunto il momento di traslarla dal piano astratto a quello pratico, facendo leva su tecniche cognitive e di neuromarketing. Talvolta le azioni di nudging sono talmente sottili o intrinseche da parte delle aziende o società, che è persino complicato riuscire a identificare la linea di separazione tra identità e tecnica di marketing.

Secondo la teoria, in quanto esseri umani disponiamo di due sistemi di pensiero opposti tra di loro: da una parte troviamo il Sistema 1, quello più veloce, intuitivo, che non richiede ragionamento e che spesse volte incappa nell’errore. Dall’altra il Sistema 2, più razionale, lento a processare e incentrato sul pensiero critico. Sappiamo anche che per indole siamo più propensi a scegliere tutto ciò che è comodo e facile da ottenere (sistema 1), cercando di evitare la fatica che un ragionamento più complesso potrebbe comportare (sistema 2). Da qui nasce l’applicazione del nudging nell’ambito del marketing: sfruttando la suddetta verità, le aziende indirizzano i clienti verso determinate scelte, premiandoli con un’esperienza di acquisto semplice, intuitiva e senza stress.

Tuttavia, lo scopo del nudge marketing non è e non può essere il mero incremento delle vendite, quanto piuttosto un maggior benessere del consumatore. Un’esperienza d’acquisto ottimizzata porta inevitabilmente a un ampliamento della brand awareness, di cui avevamo parlato nel dettaglio qui.

Calcare troppo la mano con azioni di nudging, infatti, sortirebbe l’effetto esattamente contrario: per natura l’uomo non accetta di buon grado di essere comandato, o per lo meno non in maniera esplicita e diretta.

Per poter funzionare, una strategia di nudging richiede tre requisiti fondamentali da parte del soggetto: che abbia i mezzi e le capacità per portare a termine l’azione richiesta, che sia motivato a farlo e che possa recepire uno stimolo che scateni l’azione “consigliata”. Tutto questo presuppone una conoscenza approfondita del proprio target, basata su ricerche, monitoraggi e raccolta di dati.

Come si applica il nudge marketing

Dopo aver sviscerato la teoria e aver compreso i reali motivi che stanno dietro una strategia di nudging, è giunto il momento di capire come sia possibile metterlo in pratica. Dal marketing offline a quello online, quelle veicolate dal nudge marketing sono sempre scelte implicite e scontate, che il soggetto attua volontariamente.

Se si è titolari di uno store fisico, avere cura di etichettare tutta la propria merce, indicandovi le caratteristiche di ogni prodotto e possibilmente mettendo in risalto ciò che lo contraddistingue della concorrenza, costituisce di per sé un’azione di nudging tra le più basilari. Un produttore che metta in commercio una tipologia di prodotto con meno calorie e grassi rispetto alla concorrenza può trarre benefico dall’indicare in maniera chiara sull’etichetta i valori nutrizionali che rendono il prodotto migliore degli altri. La scelta implicita compiuta da un consumatore attento alla linea, o interessato al dimagrimento, è l’acquisto del prodotto a discapito di tutti i competitor.

Se invece si possiede un ecommerce, il nudge marketing avrà a che fare con l’ottimizzazione di tutti i processi di navigazione. Badge, etichette, pop up, overlays che appaiono al momento giusto possono fare la differenza: attenzione però a non esagerare, rendendo più difficile l’esperienza del consumatore.

Un esempio di nudge nella fase del checkout è, banalmente, la spedizione gratuita, oppure una sola opzione di pagamento possibile, in modo che l’utente non debba spendere nemmeno una manciata di secondi a scegliere quale utilizzare. Anche il famoso “one click checkout” di Amazon, che snellisce al massimo il processo alleviando il “dolore da pagamento” che diversi passaggi possono instillare al cliente, è un ottimo esempio di nudge marketing di successo. Quest’ultimo, applicato alle vendite online, è volto all’incremento dell’autonomia degli utenti nell’esperienza di navigazione, grazie a sezioni dedicate e personalizzate come le classiche “I tuoi preferiti”, “Suggeriti per te”, oppure “Abbinalo con…”. Anche in questo caso, il cliente avrà soltanto l’impressione di stare scegliendo ciò che desidera, quando concretamente lo sta facendo tra le opzioni che il venditore ha deciso deliberatamente di proporgli.

Parlando di tematiche sociali, sono numerosissime le iniziative promosse a livello globale che hanno mostrato notevoli risultati: prima fra tutte una campagna di sensibilizzazione contro l’inquinamento da mozziconi di sigaretta. Nel Regno Unito sono stati installati diversi bidoni della spazzatura trasparenti, uno con su scritto Ronaldo, e l’altro con la scritta Messi. Al di sopra dei cestini appariva la scritta “Vota il miglior giocatore di calcio al mondo”. I passanti venivano così spinti in maniera ludica, divertente e per nulla forzata a depositare le proprie cicche all’interno dei bidoni per votare il calciatore, invece di gettarle a terra. In poco più di 4 mesi venne riscontrato un 46% in meno di mozziconi in strada nelle aree soggette all’esperimento. Lo stesso venne fatto in USA, con un miglioramento del 74% in 6 mesi.

La tecnica sopracitata, oltre al nudging, mette anche in pratica un’altra strategia di marketing molto in voga: quella della gamification. Scopri di cosa si tratta qui.

0

Creatigroup

La cosiddetta “gamification“, o ludicizzazione in italiano, è un approccio al marketing ancora poco esplorato nel nostro Paese, ma senza dubbio in via d’espansione. In questo articolo scopriremo di cosa si tratta e come applicarla al meglio.

Cos’è la gamification

Fino a non molto tempo fa, associare il concetto di “gioco” a strategie di marketing non era ben visto dai professionisti del settore, ancora molto legati alle vecchie e seriose pratiche del passato. Negli ultimi tempi, tuttavia, si stanno dimostrando con sempre più facilità tutti i benefici e i vantaggi che la ludicizzazione di determinate tematiche apporta alle aziende, e in generale agli organi che le propongono. Unita a quella delle sponsorizzazioni social, la tecnica della gamification può essere considerata una delle principali al giorno d’oggi, soprattutto in riferimento a un pubblico millennial o appartenente alla generazione Z.

Fare gamification significa, concretamente, applicare dinamiche ludiche al di fuori del contesto del gioco, e tale strategia può essere ampiamente impiegata, oltre all’ambito dell’insegnamento e dell’educazione, anche a quello della comunicazione e del marketing.

In questo caso, l’utente verrà coinvolto in un’esperienza interattiva a 360°, difficile da dimenticare, e che contribuirà all’innalzamento dell’engagement e della brand awareness.

Anche la scienza è in grado di confermare i numerosi aspetti positivi della gamification: tali meccanismi fanno leva sulla produzione di dopamina da parte del cervello, ovvero il neurotrasmettitore incaricato di sollecitare le sensazioni di piacere, amore, attenzione e memoria.

Più un utente (cliente) sarà felice e soddisfatto della sua esperienza “ludicizzata” con l’azienda, e più le possibilità di quest’ultima di accrescere la propria notorietà saranno elevate.

Obiettivi della gamification

Come accennato in precedenza, l’obiettivo ultimo dell’azienda che adotta un approccio di ludicizzazione è il coinvolgimento totale dell’utente, le cui necessità verranno così soddisfatte sia sul breve che sul lungo termine. Prendendo in prestito certe dinamiche dai videogiochi, come il superamento di livelli, lo sblocco di badge, l’ottenimento di premi e riconoscimenti, la gamification entra a far parte delle strategie di marketing facendo leva su caratteristiche umane innate come la competitività, la curiosità, la paura di perdere i propri privilegi e il senso di comunità.

Alcuni esempi di gamification alle sue origini sono le raccolte punti e i concorsi a premi che ormai da decenni le aziende attuano per fidelizzare la clientela. In questo modo il consumatore riceve gratificazioni frequenti, rendendo più semplice e piacevole il cammino verso la meta finale. Tale tipologia di approccio viene detta “user centered” in quanto la persona e le sue azioni vengono sempre messe al centro dell’attenzione, affinché possano venir registrate dal brand e utilizzate come parametri per il miglioramento delle strategie di marketing.

Come fare gamification: esempi che hanno fatto la storia 

Fare gamification al giorno d’oggi risulta quasi del tutto naturale, una conseguenza inevitabile dell’avanzamento della tecnologia e del progresso: le nuove generazioni nascono già immerse nel mondo digitale, e sono quindi abituate a dinamiche ben differenti da quelle di appena qualche decennio fa. Integrare la ludicizzazione nel mondo del marketing significa realizzare tutorial e presentazioni dei nuovi prodotti e servizi, ideare programmi fedeltà sempre più innovativi e accattivanti, garantire un’assistenza post vendita efficace e intrattenere il cliente durante tutto il processo di vendita.

Così facendo l’utente si sentirà al centro dell’attenzione, coinvolto, importante. L’utilizzo della psicologia del comportamento e di un sistema statistico ben preciso sono punti cardine per la buona riuscita della gamification, che può funzionare soltanto se studiata adeguatamente e monitorata durante tutte le sue fasi.

Un esempio lampante di ludicizzazione degli ulti anni è la “Battaglia dei Sapori” indetta da Fanta nel 2019, quando coinvolse tutto il suo pubblico spagnolo nella votazione sui social della miglior variante di Fanta dell’estate. L’utente assume così un ruolo attivo invece di subire passivamente le scelte be i cambiamenti indetti dall’azienda, tramutando un’esperienza di storytelling in una vera e propria storydoing.

Un altro esempio di gamification ben riuscita è quella realizzata dall’app di incontri Tinder: sin dal suo lancio nell’ormai “lontano” 2012, l’app si è confermata vincente grazie all’interfaccia giocosa e colorata, e alle sue funzioni molto simili a quelle dei videogiochi interattivi. Mentre gli altri siti d’incontri disponibili sino a quel momento facevano degli algoritmi il loro punto di forza, a discapito di un’interfaccia per desktop alquanto noiosa e austera, Tinder si è insinuato sul mercato senza la pretesa di apportare una nuova tecnologia o nuovi strumenti che garantissero un miglior risultato in termini di match. La famosa app di incontri, infatti, ha fatto molto di più, rivoluzionando per sempre il mondo del dating online: l’intero processo di iscrizione e ricerca della propria “anima gemella” è stato reso giocoso e divertente grazie alle funzioni “swipe” e alla possibilità di guadagnare premi e badge in base alla propria notorietà e completezza del profilo. Insomma, un’impresa di ludicizzazione senza precedenti, che ha aperto la strada a decine di altre app con la medesima impronta di funzionamento.

0

Creatigroup

Il consolidamento dei social network come parte integrante della nostra quotidianità ha stravolto per sempre tutte le regole del marketing.

Se fino a una decina di anni fa i marchi dovevano fare affidamento su tecniche pubblicitarie tradizionali, al giorno d’oggi sono molteplici i fronti sui quali è possibile investire con la certezza di avere successo: uno di questi è l’influencer marketing.

All’interno di questa categoria troviamo alcune figure dalle caratteristiche diverse tra di loro: influencer, ambassador e brand advocate. Scopriamo insieme di chi si tratta e quali sono i loro ruoli.

Chi sono gli Influencer

I cosiddetti influencer sono personaggi pubblici di grande spicco sui social network quali Instagram, Youtube e TikTok, ai quali le aziende si rivolgono per promuovere i loro prodotti e servizi. Grazie alla popolarità e al carisma dell’influencer, il marchio riesce ad arrivare ai suoi follower aumentando così la propria brand awareness.

Per diventare influencer non è necessario avere titoli o competenze particolari, bensì trasmettere intensa passione e interesse verso l’ambito che si decide di trattare, oltre che ottime capacità di relazione e coinvolgimento con i propri follower. Questo farà sì che il pubblico percepisca l’influencer come una figura autorevole, il cui parere sul determinato argomento ha un peso così rilevante da influenzare le proprie abitudini di acquisto.

Proprio qui sta la differenza tra un odierno influencer e un ormai datato “testimonial“: durante  il secolo scorso, nel periodo di massima diffusione e popolarità della televisione come unico mezzo di intrattenimento domestico, si è affermata la figura del testimonial in quanto celebrità inarrivabile che rappresenta un brand negli spot pubblicitari. Per definizione si tratta di un personaggio lontano dalla popolazione, che lo percepisce come un modello da imitare senza potersi rispecchiare in lui.

Gli influencer, invece, abbattono quasi ogni barriera tra loro stessi e il proprio pubblico, con il quale interagiscono, scambiano chiacchierate e consigli, raccontano episodi di vita quotidiana e ai quali, chiaramente, propongono prodotti e servizi in collaborazione con le aziende. Questa è la dinamica su cui si fonda l’influencer marketing: il segmento target si interessa al marchio sponsorizzato proprio perché in primis sente una forte affinità con il personaggio che se ne sta facendo portavoce.

Il rapporto lavorativo tra un influencer e un azienda è di solito di natura breve e si limita a una singola sponsorizzazione, spalmata sulle diverse tipologie di contenuto che il social network di riferimento offre.

L’azienda propone al personaggio una selezione di prodotti in forma gratuita, e l’influencer si incaricherà di testarli e recensirli rimanendo fedele alla propria esperienza personale. Nella maggior parte dei casi quando si collabora con influencer di grosso calibro, di solito con oltre 100 mila follower su almeno una delle piattaforme, una sponsorizzazione in denaro accompagna i prodotti gratuiti. In questo caso il brand può avanzare richieste più specifiche su come presentare il prodotto ai follower, in che modo recensirlo e con quali modalità.

La figura del Brand Ambassador

Come ormai sappiamo, nel marketing digitale esistono tante figure le cui definizioni possono talvolta intersecarsi e fondersi tra di loro. Oltre agli influencer esistono infatti anche i Brand Ambassador, che svolgono un ruolo simile ma non uguale. A dirla tutta potremmo definire gli ambasciatori (o corporate ambassadors) come un’evoluzione dell’influencer “base”. Si tratta di personaggi che incarnano in tutto e per tutto i valori dell’azienda di cui si fanno portavoce, alla quale sono legati da un contratto a lungo termine. Mentre gli influencer vengono ingaggiati una tantum, o a singhiozzi in base alle esigenze del marchio, i brand ambassador stipulano un rapporto lavorativo continuativo che richiede un maggiore impegno, costanza e dedizione, ma che garantisce risultati molto importanti e duraturi da entrambe le parti.

Il brand ambassador non ha più bisogno di direttive da parte dell’azienda su come sponsorizzare il prodotto o servizio, ma saprà valorizzarlo in maniera del tutto spontanea e naturale in quanto abbraccia in toto la filosofia e l’offerta del marchio. In questi casi il contratto tra le due parti si considera esclusivo: se un influencer di fitness e benessere viene assunto da un’azienda di abbigliamento sportivo come ambassador, ne va da sé che non solo non accetterà più collaborazioni con altri competitor per tutta la durata dell’ingaggio, ma utilizzerà i capi del marchio in ogni contenuto idoneo senza farla sembrare una forzatura o una pubblicità esasperata.

Il passaparola dei Brand Advocate

Oltre al supporto di influencer e ambassador, le aziende possono aumentare la brand awareness contando anche su quello importantissimo di un’altra categoria: i Brand Advocate. In questo caso parliamo di persone comuni divenute clienti del marchio che, al fronte di un’esperienza positiva, decidono di dedicare contenuti online al prodotto/servizio in questione. Si tratta di recensioni gratuite il cui impatto non va sottovalutato: chiunque può diventare brand advocate e stimolare la curiosità di amici, conoscenti e contatti vari, tra i quali è destinato a nascere un passaparola in grado di beneficiare l’azienda senza che essa abbia investito attivamente in questa attività.

0

PREVIOUS POSTSPage 1 of 5NO NEW POSTS